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#vita non è bianca o nera
mermaidemilystuff · 1 year
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Mia nonna, da parte di padre, era nera. Non so che origini, ma una brasiliana nera. Mio padre è nato a São Paulo. Quando sono nata -c'è questo aneddoto divertente che mi piace sempre raccontare- e dovettero darmi a mia madre dopo essere stata nelle cullette le rifilarono una biondina e al "ma questa non è mia figlia!" di mia madre la risposta fu "..ma è rimasta solo quella neretta là". 'Twas me.
Non mi sono mai bruciata a stare sotto il sole, forse arrossata quattro o cinque volte in tutta la mia vita. Se mi abbronzo per bene in estate il segno del costume mi rimane fino all'estate dopo. Con il tempo, crescendo e, soprattutto, avendo sempre meno possibilità e occasioni di stare quasi tutta l'estate sdraiata sotto il sole, mi sono sbiadita. Sì, mi sono sbiadita dio bestia. Ho sempre avuto una pelle un po' colorata, fino alle medie poi non ne parliamo ero bronzea, dopo mi è rimasto un olivastro e da qualche anno sono senza ombra di dubbio e molto tristemente: bianca.
Qualche settimana fa, poi, è successa una cosa per me impensabile. Sono stata in un parco al compleanno di una parente. Okay che mi sono rifiutata di stare nemmeno 5min all'ombra, passi che sono stata sotto il sole dalle 11:30 alle 17, vada anche che la mia pelle l'ultima volta che aveva visto il sole era settembre 2022, fatto sta che nel pomeriggio il mio braccio destro era un gamberetto. Io incredula, tutte le persone preoccupate.
"Ommiodio ti sei bruciata!" Ma no guardi non mi sono mai bruciata dico. "Oioi questo ti farà patire un bel po'!" Ma no guarda credo passerà tra qualche giorno senza troppi problemi. "Se lo sapevo avevo la crema solare dietro!" Crema solare? A maggio!? IN UN PARCO? Iniziano a venirmi i dubbi. Mi vede il mio ragazzo e fa una faccia preoccupata. Io inizio a sudare, ommiodio sono ufficialmente una bianca che si strina stando al sole in qualunque luogo, oh cielo dovrò iniziare a mettermi la crema da aprile a settembre ogniqualvolta esco di casa per non diventare un peperone perenne ma scherziamo.
Dopo due giorni di doposole il rosso è passato, non mi si è levato nemmeno un cm² di pelle a differenza dell'opinione di almeno cinque persone e, al momento, con uno splendido taglio t-shirt manica corta il mio braccio è: ⚫.
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gregor-samsung · 2 years
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“ La mancata educazione delle pulsioni confina i ragazzi, fin dalla tenera età, a esprimersi unicamente con i gesti, invece che con le parole e i ragionamenti. Ne sono un esempio i cosiddetti “bulli”, coloro che compiono azioni riprovevoli senza la minima consapevolezza della gravità delle loro azioni. Come già abbiamo ricordato, Kant dice che: «La differenza tra il bene e il male potremmo anche non definirla perché ciascuno la ‘sente’ naturalmente da sé» [I. Kant, Metafisica dei costumi, § 23: “Dottrina delle virtù”]. Nel caso del bullo questo “sentire” è deficitario, perché chi ne soffre non ha mai incontrato momenti educativi che gli avrebbero consentito di avvertire quel­l’immediata risonanza emotiva che di solito accompagna i nostri comportamenti. Alludo a quella risonanza emotiva [...] che fin da bambini provavamo quando la mamma ci raccontava le fiabe, anche truci, perché i bambini non vanno esonerati dalla conoscenza del male e neppure dal lutto, che capiranno nei limiti della loro età, ma non ne saranno sorpresi, senza sapere come reagire, quando la vita li metterà di fronte a queste manifestazioni. Ascoltando quelle fiabe o accompagnati nella lettura dalle nostre mamme imparavamo, più per via emotiva che mentale, la differenza tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, acquisendo in tal modo un regolatore emotivo che ci consentiva di “sentire” quando le nostre azioni erano buone o cattive, giuste o ingiuste. Senza un’educazione emotiva, oltre a non avere un’immediata consapevolezza della bontà o meno delle nostre azioni, si rimane a livello pulsionale, con una pericolosità sociale che la cronaca nera di ogni giorno non cessa di illustrarci. Come si comporta la nostra scuola nei confronti dei “bulli”, che sono poi quei ragazzi il cui sviluppo psichico si è arrestato a livello pulsionale? Li sospende dalla frequenza scolastica, togliendo loro l’unica opportunità che in quegli anni hanno per poter emanciparsi e passare dal livello pulsionale al livello emotivo. Dovrebbero invece essere più accuditi, meglio curati affinché possano acquisire la consapevolezza delle loro azioni, in modo da sentirle risuonare dentro di loro come buone o cattive, come gravi o lievi. “
Umberto Galimberti, Il libro delle emozioni, Feltrinelli (collana Serie bianca), settembre 2021. [Libro elettronico; corsivi dell’autore]
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yellowinter · 6 months
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ho sempre pensato di essere una nuvola... spesso nera, altre volte bianca, altre volte però sono stata capace di essere il sole e scaldare fino a bruciare... ma non è questo che, chi.. sono, non sono un dettaglio, non devo guardare i dettagli, per dettagli, a dettagli... io sono il cielo.. contengo tutte quelle cose ma non le trattengo, lascio andare tutto ciò che mi attraversa... amandole e prendendone la loro e ognuna bellezza, per cambiare forma ma trovare sempre una luce... che sia il sole nelle giornate azzurre, la luna e le stelle nelle notti buie, i lampi durante le tempeste, quell'aereo che viaggia veloce con i fari puntati all'infinito.. o giù quell'uomo che distrutto dalla vita esce comunque la sera sotto alla pioggia a portare fuori il suo cane... mi perdo spesso, in questo mondo così terribilmente rumoroso e frenetico, ma voglio ampliare la mia visuale ed essere così... il cielo.
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Sotto le lenzuola calde riapro gli occhi ed è mattino. Un braccio sopra il mio seno mi impedisce di respirare normalmente. Sento caldo e freddo all'unisono. Scendo dal letto nuda e mi dirigo verso quella che spero sia la cucina. Il caffè mi dovrebbe svegliare, mettere in moto i miei sensi messi a repentaglio dalla droga che di notte riscalda la mia pelle perennemente fredda. Guardo le sue mani prima di allontanarmi dal letto sfatto, i capelli lunghi sparsi sul cuscino rosso. La schiena possente invade il mio sguardo e bramo il suo tocco. Cammino lenta verso la cucina e accendo il caffè, nuda, cerco lo zucchero che non metto mai, ma che mi piace tenere sul ripiano della cucina. Casa mia o sua. Non fa più differenza. Due mani circondano il mio corpo nudo e qualcosa di caldo riscalda ciò che resta di me. Attorciglia i miei capelli lunghi intorno al suo polso e tira all'indietro mentre con il cazzo duro inizia a sprofondare dentro di me. Mi pervade con ciò che compone lui. Il suo profumo sparso per la stanza che si mescola al mio. Le sue labbra cercano le mie, ma trovano la barriera della mia spalla. Bacia i pezzi di carne bianca e a morsi risale lungo il mio collo. Incontro il suo sguardo e mi perdo, il scuro di uno sguardo indistruttibile. Chi sei? Raccontami di te. Possiedimi. La cintura nera viene avvolta intorno ai miei polsi, sono vittima e lui carnefice, spezzami, usami e poi lasciami sul pavimento freddo a ricompormi. La mia guancia sul freddo marmo del ripiano, contrasto tra la mia pelle bianca e il nero dei mobili, il freddo mi pervade e lo sento completamente dentro di me. Lascia lividi scuri intorno alle mie braccia, il collo e le gambe stanche. Sento il suo desiderio crescere insieme al mio e ansimo mentre i nostri respiri si confondono e diventano un tutt'uno. Chiudo gli occhi e mi abbandono a lui, il mio padrone, mio unico dio che mi fa raggiungere ciò a me sconosciuto. Mi mordo le labbra mentre lui forte mi possiede, mi guida verso il nostro piacere che invaderà il nostro corpo e ci farà urlare in una mattinata fredda di novembre. Riapro gli occhi mentre mi guida verso il letto. Le braccia restano legate, la schiena inarcata, i seni toccano leggermente il cuscino rosso scuro come il sangue che ci scorre nelle vene ed è forse questa la vita o la felicità? Si appoggia alla mia schiena mentre viene sussurrando il mio nome e per un momento il dubbio che non l'abbia nemmeno pronunciato che fosse solo nella mia fantasia mi invade. Riapro gli occhi ed il liquido caldo inizia a scorrermi tra le gambe lunghe che tanto ama e mi lascio cadere sulla pancia. Lui sopra di me, dentro di me, con me.
Tu sei vita, resta.
Ti addormenti accanto a me stringendomi forte verso di te che sei bollente. Mi acculo contro il tuo petto ascoltando in silenzio il tuo battito cardiaco ormai regolare, poggio il palmo con le unghie lunghe sopra il tuo cuore e resto in attesa di un tuo risveglio e di un nuovo inizio. Mi salvi, mi ammazzi, mi hai. Forse ti amo, forse ti odio e non te lo so dire, te lo posso sussurrare mentre con gli occhi chiusi resti in attesa del riposo totale. 'Ti amo' e non te lo dico per paura. Proteggimi, tienimi. Cerco di sottrarmi al tuo abbraccio, alla tua presa ferrea, fallendo. La tua presa resta ferma, decisa, tienimi. Mi tremano le mani e alla disperata ricerca del sonno conficco le unghie nella tua pelle, mi attacco, mi aggrappo a te. Non ti lascio, non lasciarmi. Al risveglio un altro momento d'amore. Nostro. Ora dormi, che dormo anch'io. 
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ciclistasingolo · 1 year
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SABRAESHATILA.“Celodisserolemosche”
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17 set 2020
Fisk, Israele, libano, Palestina, Sabra, Sharon, shatila
by Redazione
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Vogliamo ricordare Robert Fisk, scomparso il 30 ottobre, riproponendovi l’articolo che il grande giornalista scrisse quando tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dopo il massacro di migliaia di palestinesi nel settembre del 1982
di Robert Fisk – settembre 1982
Roma, 17 settembre 2020 Nena News – “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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raffaeleitlodeo · 11 months
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Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura. Fa' sì che questi errori non generino la nostra sventura. Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa' che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa' sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati "uomini" non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione. Fa' in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo. Fa' che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo, e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano "grandezza" e "ricchezza", e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c'è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica! Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante. - Voltaire, Trattato sulla tolleranza
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m2024a · 2 months
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«Sei sporca, brutta e grassa»: 12enne bullizzata in classe, la scuola condannata a risarcire 60mila euro «Tu sei una ragazza sporca, come tu madre, fai cose sporche, se i un p... Sei brutta, grassa, guardati». Presa di mira da un bullo, un coetaneo di 12 anni che frequentava la sua stessa classe, la seconda media di un istituto di Pescara. Per giorni, diventati mesi, lunghissimi e pesanti, la bambina è stata bersaglio di offese volgari e costanti, in classe, durante la ricreazione, quando camminava lungo i corridoi, quando usciva o entrava a scuola terrorizzata, con il cuore gonfio di angoscia per qualcosa che non sapeva spiegarsi. «Perché a me? Cosa ho di sbagliato?» si domandava quando mamma e papà la lasciavano davanti all'istituto scolastico. Quella scuola che l'ha abbandonata rendendola quasi invisibile, fatta diventare il bersaglio di un bullo, e che oggi per questo è stata condannata anche secondo grado, dalla Corte d'appello dell'Aquila, a risarcire la bambina (oggi è una ragazza di 23 anni che lavora e ha ripreso in mano la sua vita dopo anni di cure e sostegno psicologico) e i suoi genitori con 60 mila euro, dopo che la famiglia ha fatto causa alla scuola affidandosi all'avvocaro Giacomo Cecchinelli di Pescara. Ci sono voluti otto anni di udienze - uno strazio ripercorrere le sofferenze - per avere giustizia. Bullismo, bambino si suicida: i genitori si erano lamentati con la scuola almeno 20 volte. Sammy Teusch aveva 10 anni Si tratta di una sentenza di appello che ha confermato la decisione di primo grado di condannare al risarcimento del danno la scuola di Pescara per non aver vigilato e non aver preso provvedimento immediati e sufficienti a neutralizzare il bullo già nel 2015, quando iniziarono i primi episodi in classe di offese e vessazioni verso la bambina che aveva la sola colpa di avere un animo senbibile, all'apparenza timida, studiosa e riflessiva. Perché, si sa, i bulli scelgono come vittime quelle che riconoscono come più fragili, incapici di difendersi. Le continue violenze verbali hanno provocato danni gravi alla bambina che allora perse addirittura 20 chili, ebbe un contraccolpo psicologico serio e fu costretta a cambiare scuola, perdendo l'anno scolastico. La scuola, al tempo, sospese il ragazzino bullo per una settimana, ma i giudici hanno considerato questa decisione non adatta, da sola ad arginare il comportamento vessatorio del ragazzino. I compagni di classe della ragazzia bullizzata con le loro testimonianze sono stati fondamentali per arrivare alla sentenza: «Lei piangeva nei corridoi, era esasperata, andai dal preside e disse che avrebbe preso provvedimenti, capì che era a conoscenza del comporamento del ragazzino in classe» ha detto un'amica in Tribunale. «Sei nera, lei non è tua madre perché è bianca»: bimba bullizzata dai compagni costretta a lasciare la scuola di Roma I giudici sono stati molto duri con la scuola scrivendo che «a nulla rileva l'aver adottato un rigido regolamento scolastico e la sanzione inflitta a carico dei ragazzino solo dopo che la vittima  aveva trovato la forza di  informare il preside e denunciare l'accaduto. Il compito della scuola era quello di tutalare la minore, adempiendo all'obbligo di controllo e vigilanza prima che si verificasse la situazione di pericolo e non intervenire in un momento successivo». E ora all'istituto scolastico non resta che pagare i danni.
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seminostorie · 6 months
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Luna
“Hey, Luna, ma qui parlano di te! Ascolta…”
Luna e Maria si sono incontrate per caso. Una domenica di giugno, più o meno intorno alle sette, Maria si recò al parco per fare una passeggiata: fu allora che sentì quel miagolio gentile provenire da sotto una siepe. Si avvicinò e una palletta nera le venne incontro con la codina all'insù. Come nei migliori video di Instagram, Maria pensò: “Cat distribution system finally chose me!” E andò proprio così. Portò a casa il micino, gli fece un bagnetto e gli diede un po’ di carne in scatola (ovviamente, non aveva in casa tutto l’occorrente per occuparsi di un gatto!). Poi, prima di portarlo dal veterinario, lo guardò con attenzione e si accorse che era una bellissima femminuccia. “Ti chiamerò Luna!” Scelse quel nome perché la gattina non era totalmente nera, ma aveva un curiosa macchia bianca sul petto, che ricordava proprio una mezza luna. Erano passati sette/otto mesi, quel pomeriggio pioveva a dirotto. Maria stava studiando per un progetto del dottorato in storia, mentre Luna poltriva tranquilla sul divano. In un libro sugli usi e i costumi medievali, Maria lesse del destino riservato ai gatti neri. “Hey, Luna, ma qui parlano di te! Ascolta: nel medioevo, i gatti neri erano associati al diavolo e, spesso, nascere gatto nero significava andare incontro alla morte. Tuttavia, bastava anche solo una macchia di un qualsiasi altro colore per risparmiargli la vita. Curioso è il caso dei gatti neri con una macchia bianca sul petto. Quella macchia, infatti, prendeva il nome di “macchina della Madonna”, perché si credeva che fossero stati benedetti, e quindi salvati, dalla Madre di Dio.” La guardò: “Lo sapevi?” - chiese. “Miau!”- rispose Luna, ribaltandosi sul divano.   
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notiziariofinanziario · 10 months
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10 consigli di orologi per il Black Friday
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Un orologio in oro e diamanti per suggellare un traguardo raggiunto, un orologio piccolo e prezioso per lasciarla senza parole, un orologio antico personalizzato per dirle che è unica e insostituibile; sono solo alcune idee per il prossimo regalo alla tua dolce metà. La maxi wishlist di orologi donna preziosi pensata per Lei/Loro torna puntuale anche quest’anno: in questa gallery - in aggiornamento fino alla Vigilia - salveremo i modelli che sogniamo di trovare sotto l'albero la notte di Natale 2023, o anche il prossimo compleanno o anniversario. Perché potersi permettere di acquistare un orologio è un traguardo straordinario, nonché una soddisfazione unica, ma riceverne uno in regalo da una persona che amiamo e stimiamo profondamente, è altrettanto straordinario, se non di più (?). 1 Orologio VAN CLEEF & ARPELS Creato nel 1968, il motivo Alhambra® di Van Cleef & Arpels è diventato simbolo intramontabile di fortuna. Ogni gioiello, ogni orologio, con questo motivo diventa un talismano perfetto da regalare a un persona speciale. L'orologio Sweet Alhambra è realizzato in oro rosa, oro rosa guilloché, corniola, movimento svizzero al quarzo, Van Cleef & Arpels. 2 Orologio APPLE WATCH Da alternare all'orologio prezioso il nuovo Apple Watch Series 9 - lanciato a fine settembre 2023 - con il nuovo chip S9 SiP, luminosità migliorata, e nuove funzionalità come il gesto del doppio tap e Siri on-device. Questo modello rappresenta un'evoluzione significativa nella tecnologia indossabile. Inoltre, conferma l'impegno di Apple di neutralizzare l'impronta carbonica entro il 2030 a ogni livello dell’azienda, della catena di fornitura della produzione e del ciclo di vita dei prodotti: per la prima volta, i clienti e le clienti potranno scegliere una opzione carbon neutral per ogni Apple Watch. 3 Orologio CHANEL L'orologio J12 CALIBRO 12.2 di Chanel è una combinazione di eleganza, resistenza e funzionalità: la cassa 33 mm è realizzata in ceramica bianca e acciaio; il quadrante laccato in bianco è reso ancora più attraente grazie agli indici in ceramica nera; il bracciale è realizzato in ceramica bianca ad alta resistenza e presenta una tripla chiusura pieghevole in acciaio, garantendo comfort e solidità. Inoltre, con una resistenza all'acqua di 200 metri, è adatto per l'esplorazione subacquea. 4 Orologio BVLGARI L'orologio Serpenti Seduttori di Bvlgari in oro rosa 18 kt e acciaio inossidabile è una seducente combinazione di materiali preziosi, forme sinuose e fascino contemporaneo. La sua cassa presenta il riconoscibile design a goccia della Maison, un quadrante in madreperla illuminato da una lunetta con diamanti. È anche resistente all'acqua fino a 30 metri. 5 Orologio OMEGA Il Seamaster Aqua Terra di OMEGA è un orologio che fonde design classico con elementi di ispirazione contemporanea, omaggiando la ricca tradizione oceanica del marchio. Questo modello da 38 mm, realizzato in oro Sedna™ 18K lucido, vanta una lunetta incastonata di diamanti, una corona conica e un fondo in vetro zaffiro con decorazioni ondulate. Le lancette sfaccettate e gli indici delle ore, ispirati al design di uno scafo di barca a vela, sono realizzati, anche loro, in oro Sedna™ 18K e riempiti di Super-LumiNova bianca. 6 Orologio CARTIER L'orologio Tank Louis Cartier, nella sua versione di grandi dimensioni, è dotato di un movimento meccanico a carica manuale. La cassa, in pregiato oro giallo 750/1000, è impreziosita da una corona perlata sormontata da uno zaffiro cabochon. Il quadrante presenta un suggestivo effetto lacca rossa, mentre il cinturino in alligatore semi-opaco rosso bordeaux. 7 Orologio AUDEMARS PIGUET Audemars Piguet, arricchisce la sua collezione Code 11.59 con l'introduzione di una nuova cassa da 38 mm progettata per adattarsi ai polsi più sottili. Questo modello abbina il quadrante color prugna e il cinturino in alligatore con l'oro rosa per ottenere un effetto elegante e avvolgente. Questo orologio rappresenta un'evoluzione nel design della collezione ed è dotato del moderno movimento Calibro 5900, lanciato nel 2022. La cassa mantiene l'estetica distintiva del Code 11.59, mentre i quadranti in rilievo, sviluppati in collaborazione con l'artigiano svizzero Yann von Kaenel, presentano un affascinante motivo a onda con effetti cromatici unici. Il Calibro 5900, un movimento sottile di 4 mm con alta frequenza e 60 ore di riserva di carica, è visibile attraverso il fondello in vetro zaffiro, evidenziando la massa oscillante in oro rosa 22 carati e le sofisticate decorazioni dei componenti. 8 Orologio VACHERON CONSTANTIN Realizzato in oro rosa, il suo design presenta un fondello scanalato e una minuteria di tipo "chemin de fer," che richiama lo stile iconico della collezione di orologi Traditionnelle di Vacheron Constantin. La lunetta è ornata da 54 diamanti di taglio rotondo, che aggiungono un tocco di lusso e raffinatezza.Ciò che rende davvero straordinario questo orologio sono le magnifiche finiture realizzate a mano del movimento manuale, visibili attraverso l'apertura del fondello. Questo dettaglio non solo conferisce un tocco di eleganza, ma anche una dimostrazione della maestria artigianale impiegata nella creazione di questo capolavoro. 9 Vintage ROLEX La combinazione di zaffiri dai vivaci colori dell'arcobaleno e un semplice quadrante bianco conferisce all'orologio in oro 18 carati di Jacquie Aiche un'armonia equilibrata di eleganza. Questo modello vintage Rolex Oyster Perpetual è stato rinnovato e restaurato con maestria a Los Angeles, mantenendo la sua originale lunetta e il celebre movimento Perpetual, ma dotandolo di un nuovo cinturino in pelle dall'effetto coccodrillo e un quadrante in cristallo di zaffiro levigato. 10 Orologio CHARLES OUDIN Omaggio alla magnificenza del giardino del Palais-Royal a Parigi, dove Charles Oudin ha aperto il suo primo laboratorio nel 1797, ogni modello della collezione Retro, di un'eleganza classica ed eterna, porta il nome di un fiore: Rosa, Viola, Margherita, Giglio, Aster... Abbinati a cinturini di raso colorato e brillanti diamanti, questi preziosi orologi sono espressione dell' art de vivre francese. Questo modello si chiama Pansy, ovvero viola del pensiero. Read the full article
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carmenvicinanza · 1 year
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Anna Maria Gehnyei
https://www.unadonnalgiorno.it/anna-maria-gehnyei/
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Il mio corpo ha un colore e per strada me lo fanno notare. Il corpo nero è politica. Lo era in passato, lo è oggi, e penso che lo rimarrà ancora a lungo.  Da quando ho imparato a celebrarlo, la positività regna e vince su chiunque vuole farmi credere di essere inferiore. Il mio corpo nero non è più una barriera, non soffre più per il giudizio della gente. È soltanto il corpo in cui ho deciso di abitare, raccogliendo e accogliendo tanta ricchezza culturale che spero di riuscire a trasmettere attraverso la mia arte.
Anna Maria Gehnyei, in arte Karima 2G (seconda generazione), è una rapper e producer musicale che ha all’attivo vari dischi e collaborazioni e il romanzo Il corpo nero.
È nata a Roma da genitori liberiani arrivati in Italia alla fine degli anni settanta, per lavorare in ambasciata. Abitavano in una villa nella zona Nord, la parte ricca della capitale, a totale prevalenza bianca.
Quando i conflitti in Liberia si sono intensificati, l’ambasciatore è scappato all’improvviso negli Stati Uniti costringendoli a cambiare radicalmente vita, la mamma ha iniziato a lavorare come donna delle pulizie e il padre come muratore.
Nonostante sia nata in Italia e qui si sia svolto tutto il suo percorso scolastico, ha ottenuto la cittadinanza soltanto a ventiquattro anni, dopo una lunga e farraginosa trafila burocratica.
La sua carriera artistica è iniziata come ballerina, si esibiva nei locali notturni quando le è stato chiesto di fare la vocalist per una serata e, da allora, ha deciso che la musica era il suo modo di esprimersi preferito. Ha esordito da solista nel 2014, i primi due singoli Orangutan e Bunga Bunga, ispirati al becerume politico italiano, hanno provocato reazioni discordanti tra pubblico e critica.
Per il suo percorso artistico, la John Cabot University le ha riconosciuto una borsa di studio internazionale e nel 2020 si è laureata in Communications e Political Science.
Nel 2022 ha debuttato, come autrice e attrice con lo spettacolo teatrale If There Is No Sun.
Partendo dagli scritti del suo diario di bambina, ha scritto il suo primo romanzo Il corpo nero, uscito il 17 febbraio 2023.
Un’autobiografia che avanza cronologicamente in una successione di quadri. Ogni capitolo una piccola epifania dalla vita di un’italiana di seconda generazione. Prima bambina, figlia di immigrati liberiani “intrappolati” a Roma, poi adolescente, infine giovane donna finalmente italiana, anche per la burocrazia.
Il suo percorso di liberazione, l’incontro con se stessa e i propri diritti, sono narrati in prima persona, in un’architettura in cui si ha scelto la leggerezza per raccontare una storia grave e dolorosa.
Una narrazione che risponde a un’esigenza intima e sociale fatta di ricordi, suoni, amore, famiglia, sorellanza, di una giovane donna che ha deciso di far sentire la sua voce e le sue istanze, da protagonista e non da vittima.
Vi ha raccontato delle esperienze scolastiche tra bambini privilegiati, dei datori di lavoro che si stupiscono del suo italiano, dei poliziotti che  ripetono sempre le stesse domande. Delle storie dell’infanzia in Liberia che sua madre le raccontava, di quella terra magica ricca di risorse, dei rituali nascosti del villaggio del padre, a cui ha scritto una toccante lettera.
Ha descritto di come, ovunque vada, c’era sempre qualcosa o qualcuno che le ricorda di essere nera. Di come sia stata costretta, sin da piccola, a negoziare continuamente tra due realtà culturali, quella italiana che non l’accetta e quella africana a cui non appartiene fino in fondo.
Troppo nera per parlare bene l’italiano, troppo nera per indossare abiti eleganti, troppo nera per essere istruita.
Col tempo e la consapevolezza è riuscita a lasciarsi guidare dal ritmo delle sue radici e trovato nell’arte lo strumento per abbattere il muro della paura ed esprimere le sue emozioni.
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lamilanomagazine · 2 years
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Milano: "Plastica bianco o nero?" un weekend dedicato alla plastica per i 120 anni dalla nascita di Giulio Natta
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Milano: "Plastica bianco o nero?" un weekend dedicato alla plastica per i 120 anni dalla nascita di Giulio Natta. Sabato 25 e domenica 26 marzo, in occasione dei 120 anni dalla nascita di Giulio Natta e dei 60 anni dal Premio Nobel ricevuto per la sintesi del polipropilene, il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia propone un weekend dedicato a uno dei materiali che ha cambiato il mondo: la plastica. Si potrà scoprire skateboard unici realizzati riciclando tappi di bottiglie, o partire per un viaggio nel mondo della plastica tra oggetti comuni e di design, tesori del passato provenienti dal mare e il bancone del laboratorio del premio Nobel Giulio Natta. Non mancherà la possibilità di divertirsi con sostanze appiccicose e rivivere le storie di un gruppo di restauratori, conservatori e curatori grazie a due documentari. Sarà poi possibile partecipare al Gran Ballo delle molecole, per dare vita al polipropilene più lungo che ci sia. Il Museo custodisce molte testimonianze del lavoro di Natta e della sua rivoluzionaria scoperta: da uno dei banconi del laboratorio in cui scopre il polipropilene isotattico, al modello della molecola di polipropilene, usata dal professore per lo studio e la divulgazione della sua invenzione, a una delle cappe che utilizzava per le sue ricerche. La Collezione Montedison è un’altra significativa testimonianza delle tipologie di plastica utilizzate tra il 1910 e il 1950, prima delle ricerche dei premi Nobel Giulio Natta e Karl Ziegler da cui derivano le plastiche odierne. A ricordare l’inventore della plastica vi sono anche: il modello di una parte dell’impianto di produzione del polietilene del Pertolchimico di Gela; la punta della torre estrattiva del petrolio, utilizzata in Sicilia quando Mattei potenziò la produzione del polietilene; il Fondo Piero Pino carte, documenti e brevetti di Piero Pino (1921-1989), uno dei membri del gruppo di ricerca di Giulio Natta. PROGRAMMA ATTIVITÀ SENZA PRENOTAZIONE Auditorium Storie di plastica Sabato 25 e domenica 25, dalle ore 10 alle 18 a ciclo continuo Attività senza prenotazione A partire da due documentari del regista Francesco Clerici, seguiamo un gruppo di restauratori, conservatori, conservation scientist e curatori di diverse istituzioni, al lavoro per valorizzare e conservare il patrimonio di beni in plastica della collezione Montedison del Museo e del Fondo De Pas d’Urbino Lomazzi del Casva di Milano. In collaborazione con Cersmar7 Edificio monumentale Souvenirdamare Sabato 25 e domenica 25, dalle ore 9.30 alle 18.30 a ciclo continuo Attività senza prenotazione Scopriamo la collezione di oggetti in plastica della designer Angela Ponzini, raccolti nelle estati dal 2019 ad oggi nella Riserva Naturale Regionale Punta Aderci in Abruzzo e tra le spiagge di Vasto, Mottagrossa e Torre Sinello. “Tesori” del mare che sono conservati e mostrati insieme agli scatti realizzati durante i ritrovamenti per riflettere sulla vita dei materiali plastici in relazione con l’ambiente. Padiglione Aeronavale Il Gran Ballo delle Molecole Sabato 25, dalle ore 17 alle 18.30 a ciclo continuo Attività senza prenotazione Dress code suggerito: total black o total white Muoviamoci a ritmo di musica e immergiamoci in un Gran Ballo davvero unico. Con la guida del maestro di cerimonia Loris Lunanzio e della scienziata Fiammetta, componiamo la molecola bianca e nera di polipropilene più lunga che ci sia! A cura dell’attore Loris Fabiani e Francesca Olivini, curatrice Collezioni del Museo ATTIVITÀ CON PRENOTAZIONE Padiglione Aeronavale (A-1) EcoSkate Sabato 25, alle ore 14.30 e 15.30 Domenica 26, alle ore 11 e 12 Dagli 8 anni | durata 60 minuti | max 10 partecipanti + accompagnatori | prenotazione online Divertiamoci con alcuni skateboard realizzati dal riciclo di tappi di plastica. Osserviamo da vicino la loro unicità e bellezza e mettiamo alla prova la resistenza e i movimenti. Se usiamo uno skate per i nostri spostamenti, portiamolo al Museo per confrontare affinità e differenze con questi modelli. A cura di EcoSkate A.S.D. iLab Chimica Plastiche alla mano Sabato 25 e domenica 26, alle ore 11.30, 14 e 17 Dagli 8 anni | durata 45 minuti | max 25 partecipanti | prenotazione online Osserviamo da vicino le plastiche e sperimentiamo modi creativi per poterle distinguere. Proviamo a mescolare ingredienti diversi e realizziamo con le nostre mani un materiale plastico colorato e modellabile. VISITE GUIDATE Collezioni di studio – Depositi del Museo Buon compleanno Giulio Natta Sabato 25, alle ore 15.30 Domenica 26, alle ore 11.30 Dai 12 anni | durata 60 minuti | max 20 partecipanti | prenotazione online Entriamo in uno dei depositi del Museo insieme alla curatrice e scopriamo alcune plastiche prodotte dalla metà dell’Ottocento per realizzare oggetti comuni come bottoni, spazzole e giocattoli, ma anche gioelli, oggetti di design e caminetti. Osserviamo il bancone proveniente dal laboratorio del premio Nobel Giulio Natta e il modello della molecola del polipropilene da lui realizzato. Proviamo a capire perché la sua scoperta è stata così rivoluzionaria dal punto di vista scientifico, tecnologico e sociale. L’iscrizione è obbligatoria ed è effettuabile esclusivamente online al link https://museoscienza.vivaticket.com/must/landingmuseo.html Per partecipare alle attività è necessario prenotare al momento dell’acquisto del biglietto al costo di 1 € di prevendita.  ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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nonhofantasiaa · 2 years
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20-03-23
<ho detto: adesso stoppo tutto e chiamo Chiara perché ne ho bisogno.>
Quanto vorrei capire se questo bene è effettivamente grande come ogni tanto mi sembra o se è tutto in funzione di qualcosa, in cerca di ricavi. Perché si sa ad essere troppo buoni non si ricava mai niente ma io sento di volere un bene a questo ragazzo che è davvero fuori dal normale e pensare che anche lui possa effettivamente provare lo stesso bene nei miei confronti mi fa star bene. Mi fa sentire speciale. Mi fa sentire amata come spesso e volentieri non riesco a sentirmi perché mi dico chi mai mi dovrebbe volere bene e perché.
Mentre lui non ha niente, è sempre in situazioni effettivamente del cazzo eppure stoppa il mondo per parlarmi, per sentirmi, per raccontarmi, per sentirsi meglio, e il mio cuore mi si riempie di gioia e mi dico ok forse è vero che mi vuole bene, che ci tiene e mi sento la più fortunata del mondo ad avere una persona che prova questo per me e che fa di tutto per dimostrarmelo pur non avendo assolutamente niente.
Ci siamo conosciuti assolutamente per caso e da parte mia è scattato qualcosa, mentre lui era in un periodo in cui cercava tutt’altro poi ci siamo persi per un po’. E poi sbam quando la vita si è girata e io son diventata la parte nera e lui quella bianca ci siamo ritrovati. Caso, fortuna, destino chissà. Però ci siamo. Esistiamo. Io per lui, lui per me. Anche se non sarà mai una storia d’amore tipo marito e moglie penso proprio che sia la storia d’amore quasi fraterno più bella che io abbia mai incontrato finora. Nonostante i duecento mila dubbi continui, nonostante le difficoltà, nonostante la lontananza .. eppure lui c’è ed io pure. E adesso non mi importa nient’altro.
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jacopocioni · 2 years
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Proconsolo delle arti
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Nella città di Firenze, nelle Arti, la figura più importante era quella del Proconsolo, già conosciuta per la partecipazione alla commissione esaminatrice dei nuovi iscritti all’Arte dei Giudici e Notai. Il suo nome in latino era “Preconsul” cioè primo fra i Consoli, in volgare diventava Proconsolo. Il primo ad avere questo nome nel 1317 fu il Notaio Ser Bonaccorsi Gerii. La sua elezione si teneva nell’ultima decade di settembre e marzo. Veniva scelto fra i Notai essendo questi in numero maggiore dei Giudici. Nel quartiere dal quale doveva uscire, si teneva uno scrutinio (in antico; Squittinio) fra i papabili, sempre con il sistema della fava bianca e nera. L’eletto al momento dell’incarico, doveva dimostrare di avere i requisiti richiesti per svolgere la sua mansione. Doveva essere Guelfo, di chiara fama, nato da regolare matrimonio, di avere almeno quaranta anni, di essere devoto a Santa Romana Chiesa, e di essere conosciuto in Firenze. “Nei consigli del Comune, ai quali prendevano parte le capitudini delle diverse Arti, che formavano il potere centrale della Repubblica, il Proconsolo non aveva veramente un’autorità speciale. Egli aveva voto deliberativo come qualunque altro dei Consoli della sua o di altra Arte. Anche in mezzo ai Giudici e Notai che avevano un abito speciale diverso da quello usato dai cittadini, indossava un vestito tutto rosso o violetto a volontà. La carica durava quattro mesi durante i quali, sotto pena di una multa come previsto dallo Statuto dell’Arte, non poteva uscire in pubblico solo se seguito da due Donzelli o Nunzi, un naccherino (che suonando con le mani una coppia di piccoli tamburi di forma semisferica annunciava il passaggio del Proconsolo) e dal Bandieraio con l’insegna dell’Arte dei Giudici e Notai. Non poteva essere eletto una seconda volta. Allo scadere del mandato, il suo operato veniva sottoposto ad un collegio giudicante, per sapere se aveva operato bene. Dopo il solenne giuramento che avveniva alla Badia Fiorentina, era tradizione che venisse celebrata in quella chiesa una messa solenne, dopo entrava ufficialmente in carica. Per tutta la durata del suo ufficio abitava in una casa accanto alla sede dell’Arte dei Giudici e Notai, nella strada che portava e porta il suo nome con due Nunzi al suo personale servizio. Il Proconsolo indossa un giubbone e calzoni al ginocchio di panno nero soppannati di giallo, calze e scarpe rosse, mazzocchio di velluto paonazzo con mantello dello stesso colore, portato sopra il giubbone ed agganciato al collo; è armato di spada e reca nella mano destra una mazza di legno ricoperta di velluto bianco-rosso con nappe degli stessi colori e pomo d’ottone. I due Nunzi hanno un giubbetto di panno rosso soppannato di bianco corto fino alla vita, calzoni di panno rosso al ginocchio, portano berretta alla raffaella di panno rosso piumata, calze e scarpe rosse; alla cintura una borsa in pelle, uno con la croce bianca in campo rosso della Repubblica, l’altro con l’insegna dimezzata bianco-rossa del Comune e sono armati di pugnali detti “sinistre”. Il Bandieraio dell’Arte dei Giudici e Notai indossa un giubbone in panno bianco-rosso, berretta rossa piumata, calzamaglia rossa e bianca, scarpe marroni ed è armato di spada. Porta la bandiera dell’Arte dei Giudici e Notai, di dimensioni cm 120x 140, scalettata con cinque scalini di cm 24 x 20, d’azzurro alla stella ad otto punte d’oro, ornata di frangia azzurra e gialla, asta in legno e puntale dorato. Il Proconsolo nel Corteo della Repubblica Fiorentina sfila a capo di tutte le Arti con il Gruppo del Tribunale di Mercatanzia.
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Alberto Chiarugi Read the full article
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*ELIMINARE LE NEGATIVITÀ* Ovviamente, questo rito non rimuove una persona dalla nostra vita ma le negatività che vengono dalla sua influenza su di noi. In Luna Calante, fai una breve meditazione per prepararti mentalmente e purifica l’ambiente dove farai il rito utilizzando salvia o palosanto. OCCORRENTE: - incenso di salvia - Una candela bianca - una candela nera più piccola - Un foglio di carta bianca (non enorme) - una penna nera - Uno spillo (o simile) per scrivere sulle candele Accendere l’incenso e lasciarlo bruciare per tutto il rito. Prepara la candela bianca e caricala (con olio extra vergine d’oliva) in positivo (dall’alto verso il basso) concentrandoti sulla luce. Non accenderla ancora. Ora, concentrati sulle negatività e sui blocchi di questa persona, sulle sue paure, sulle influenze negative che può avere e scrivi il tutto sul foglio di carta. Prendi la candela nera e scrivici con lo spillo le stesse negatività ed ungila dal basso all’alto sempre concentrandoti su tali negatività.  Prendi poi posizione rivolgendoti a SUD. Accendi la candela nera con un accendino, poi brucia il foglio di carta con la fiamma della candela.  Mentre la carta brucia, visualizza le influenze negative che diminuiscono fino a sparire del tutto. Fatto questo, recita: “tutti gli ostacoli sul mio sentiero
spariscono fra me e il (mio scopo – o il tuo amore) non si metterà di mezzo niente e nessuno proclamo ora il sentiero pulito e purificato così che tutta l’energia negativa sparisca e ciò che desidero arrivi facilmente beneficiando tutti – senza danneggiare alcuno questa è la mia volontà così sia” Una volta che il bigliettino è bruciato, accendi la candela bianca e visualizza la luce prottettiva che domina tutto, e che vi (te e la persona amata) avvolge. Lascia che la candela nera bruci e così anche la candela bianca che dovrebbe essere l’ultima a spegnersi. Molto importante; le candele devono sempre bruciare IN SICUREZZA, attenzione se avete animali. I residui di cera e la cenere che rimarrà è meglio che vengano portati fuori casa e buttati nella spazzatura(evitiamo di inquinare Madre Terra o Sorella Acqua). Una volta buttati, torna a casa senza voltarti. 🍀 https://www.instagram.com/p/CnR7gPRNDM-mNNLI77NGbSaKC9Y6ThtZmVBBpU0/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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tempi-dispari · 2 years
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Escape to the Roof, il primo singolo Fried Blues Chicken
Prosegue il racconto surreale della band anonima Escape to the Roof con ilvideoclip Fried Blues Chicken (ASCOLTA BRANO), primo singolo estratto del nuovo album, in uscita a breve. Sceneggiatura, progetto grafico, animazione sono a cura di Maria Cangemi, la produzione è di SaganaS.
“Nel videoclip – racconta il regista – attraverso l’essenziale duello tra linee bianche e nere viene a galla lo scontro tra il bisogno umano di osservare l’abisso e il terrore di caderci dentro aggrappandosi al pollo fritto, che però è unto. Il testo del brano e le immagini scorrono accanto toccandosi, a tratti, per poi tornare a percorrere il proprio sogno che si agita sulle stesse note.”
Ecco una approfondita ed esaustiva descrizione nel dettaglio da parte della band dopo accurato dibattito con il regista: “Fondo bianco e fondo nero, linee bianche, linee nere. Fondo bianco. Una linea nera. Linea, linea. Una linea. Una linea nera. Linea. Linea linea linea. Linea, linea. Linea nera, una linea nera, nera, linea nera. Linea nera linea linea linea nera, linea. Linea linea nera nera. Una linea nera.
Nera linea nera. Una linea? Nera. Fondo nero. Una linea bianca, linea, linea bianca. Bianca linea, linea bianca bianca. Linea linea linea bianca. Linea bianca, linea linea, bianca bianca. Bianca linea bianca.”
Il singolo Fried Blues Chicken è il primo manifesto degli Escape To The Roof in cui propone una metafora della vita, sulla società, sulla produttività in batteria, che parte dalle parole di Margaret Heffernanche riprende lo studio sui polli di un biologo evoluzionista della Purdue University, William Muir: “Muir s’interessava di produttività, una cosa che penso riguardi tutti noi, ma che nei polli è facile da misurare perché basta contare le uova. Voleva sapere come rendere i suoi polli più produttivi, così escogitò un bell’esperimento.
I polli vivono in gruppi, quindi ne selezionò una colonia media e la lasciò crescere per sei generazioni. A questo punto, creò un secondo gruppo composto dagli individui più produttivi, che chiameremo ‘superpolli’. Questi furono riuniti in una super colonia, selezionando da ogni generazione soltanto gli individui più produttivi. Dopo sei generazioni, indovinate cosa scoprì? I polli del primo gruppo, quello medio, se la passavano benissimo. Erano tutti belli grassottelli e ben piumati e la produzione di uova era aumentata notevolmente. E il secondo? Tutti morti, eccetto tre superstiti che avevano beccato a morte tutti gli altri.”
La band ha scelto l’anonimato, nomi di fantasia, e non vuole rendere pubblica la biografia, le identità e le foto dei componenti, ciò che oggi invece sembra essere imprescindibile per l’industria musicale. Lo scopo ultimo è fare in modo che chiunque ascolti i singoli o il disco, si concentri il più possibile sulla scrittura, sul messaggio, sulla composizione, sui testi, sulle emozioni, sui temi di questo progetto discografico, in particolare sulle sonorità degli anni d’oro del rock, come atto di una vera “insurrezione”, per riscoprirne il valore profondo:
“La storia ci ha insegnato – racconta G.C. Wells, leader della band – che dissociare la biografia dell’autore dall’atto artistico non altera la possibilità di fruire, in tutta la sua potenzialità, il messaggio che da esso deriva, anzi credo sia l’unica cosa rimasta da fare come atto di nuova insurrezione rispetto a quello che ci circonda, così da aiutare l’ascoltatore a individualizzare meglio e a interpretare il messaggio per quello che è oggettivamente.
“Sicuramente il mondo non ha bisogno di ulteriori figurine da collezionare. C’è un sovraffollamento di figurine senza precedenti, e a dirla tutta io non mi sono mai sentito una figurina in mezzo alle altre figurine. L’idea di rivolgere un gesto artistico alla mercificazione tritatutto dello show business non è il mio mondo, per cui rispettare le leggi che regolano quest’industria non è nei nostri piani.
Certo non siamo così ingenui da pretendere di restarne fuori e allo stesso tempo fare arrivare a più fruitori possibili il nostro lavoro. Ma pensiamo che fare un passo indietro, mettere al centro la musica distaccandosi dall’apparenza, alle volte possa significare prendere una rincorsa più lunga per spiccare un salto più alto. Riteniamo che sia l’unica maniera per fare diventare l’atto artistico arte collettiva”, prosegue il leader della band
In questascelta, che nascedall’urgenza interiore di fare un passo indietro e recuperare determinati valori che ormai sono dimenticati, la finzione ha un ruolo determinante come fonte di conoscenza. L’intreccio fantasioso delle biografie dei componenti della band (G.C.Wells, vocals, guitars; Jann Ritzkopf VI, guitars, soundscapes; Zikiki Jim; bass; Canemorto drums), che verranno raccontante man mano nel corso dei prossimi capitoli, fa parte del gioco: “non siamo in preda agli spasmi romantici della nostra arte, e non abbiamo perso l’abitudine o il gusto del divertimento, anzi.
Le storie di contorno fanno parte del gesto artistico in tutto e per tutto. È opinione abbastanza condivisa che le opere letterarie, e quindi, la finzione possa essere molto importante, se non addirittura fondamentale quale fonte di conoscenza.
Non vuole essere certo la mera sostituzione della biografia reale dell’autore con la fiction quale sacrificio da immolare sull’altare dell’anonimato, ma è certamente qualcosa di più. Gli antichi greci scrivevano le tragedie con lo scopo dichiarato di educare il popolo per il tramite della catarsi.
Noi non ci arroghiamo il diritto di mistificare così in alto, vogliamo semplicemente giocare con la materia narrativa e descrittiva, che sia di natura musicale, letteraria, teatrale ecc., senza preoccuparci troppo che questo possa innescare confronti da sostenere con illustrissimi predecessori, o con l’incertezza che ci sia qualcosa che non si possa sperimentare per paura di dissacrare, o peggio, col timore di sconfinare in “territori occupati” da altri artisti.”
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noth94 · 4 years
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Quando i Maya non fanno bene i calcoli
Quando i Maya non fanno bene i calcoli
Nota Bene: Per chi ancora, non avesse compreso il mio modo di argomentare, spiego in questa nota che il post è ironico, e nel quale non intendo ledere nessuno, è solo un post per fare un riassunto tragicomico di quanto stia accadendo in questo periodo (che 2012 scansati proprio), quindi Sì, dico proprio a te buonista dei miei gironi che stai in agguato pronto a rompere i maroni conle solite frasi…
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