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#letteratura mitteleuropea
gregor-samsung · 1 year
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“ «Le persone che passeggiano,» disse Moro guardando giù nella Kirchengasse «questi esseri anacronistici estremamente sensibili, quando passeggiano sono gli esseri più ragionevoli fra tanti assolutamente irragionevoli, e anche i più felici fra tanti assolutamente infelici, forse è così, mio caro signor Robert, ma non si può dire loro che fra tanti assolutamente irragionevoli loro sono i più ragionevoli e fra tanti assolutamente infelici loro sono i più felici... non si può rivolgere la parola a chi sta passeggiando... a chi se ne va in giro con qualche incombenza o con nessuna incombenza in testa... quello che gli uomini producono» disse Moro «è soprattutto un’enorme attività diretta contro la noia... un’insensatezza contro l’insensatezza... quelli che se ne vanno in giro per i boschi, lungo le rive dei laghi, dentro le gole, fuori dalle valli, e come Lei sa ogni giorno circolano senza sosta circa duemila milioni di persone... mentre in fondo è del tutto sufficiente sfinirsi mangiando e dormendo... mio padre, lo dico perché in questo momento ho sottomano proprio la tenuta di Hisam, andava molto spesso a passeggiare con il suo signor tutore soprattutto nella tenuta di Hisam... attraverso i frutteti di Kammerhof... Laudach, Langbath, Grünau, Lindach, Rutzenmoos, Aurach... discorrendo proprio di Ungenach... e spesso, a quanto sembrava, anche senza alcun motivo... Il suo signor padre,» disse Moro «e anche mio padre erano soliti passeggiare, ma non erano affatto persone anacronistiche, come del resto non lo era neppure il suo signor tutore... Camminare e pensare, questa simultaneità» disse Moro «io l’ho osservata per tutta la vita sia nel suo signor padre sia nel suo signor tutore sia in mio padre. Quanto a me, io non vado a passeggio. Era per questo che suscitavo la diffidenza soprattutto del suo signor padre... come del resto anche la diffidenza del suo signor tutore... chi è solito passeggiare diffida delle persone che non vanno a passeggio, che non sono solite passeggiare, gli anacronistici eccetera... e così questa bella regione, questa nostra regione è attraversata in modo singolarissimo da una costante diffidenza che in realtà offusca ogni cosa, tutta quanta la regione è percorsa da una sottile trama di diffidenza di chi è solito passeggiare verso chi non è solito passeggiare. Così sono impensabili delle amicizie fra chi è solito passeggiare e chi non è solito passeggiare... come è impensabile l’amicizia in genere» disse Moro. “
Thomas Bernhard, Ungenach. Una liquidazione, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 766), 2021¹; pp. 28-29.
[ Edizione originale: Ungenach. Erzählung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968 ]
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eugeniocaruso · 1 year
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FRANZ KAFKA, IL MASSIMO SCRITTORE ONIRICO DELLA LETTERATURA MONDIALE. http://www.impresaoggi.com/it2/2418-franz_kafka_il_piu_grande_romanziere_onirico_della_letteratura_mondiale/ Palazzo Kinsky, dove Kafka frequentò il ginnasio. Io amo la città di Praga e la sua architettura mitteleuropea. https://www.instagram.com/p/Cn1umQZIAah/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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simonarinaldi · 4 years
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"MUSIL (Robert) - L'uomo senza qualità"
“MUSIL (Robert) – L’uomo senza qualità”
MUSIL – L’uomo senza qualità Musil
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freedomtripitaly · 4 years
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Quest’anno Trieste è capitale Europea della Scienza. Non che occorressero ulteriori motivi per andare alla scoperta di questa stupenda città italiana dalla storia grandiosa. Elegante, rigorosa, quasi algida. Del resto una delle sue tante anime è austriaca. Città di frontiera, enigmatica. Trieste affascina per la sovrapposizione armoniosa delle sue storie: l’antica Roma, Venezia e poi l’Austria; l’annessione dopo la grande Guerra, i crimini perpetrati da fascisti e nazisti; le ferite profonde poi la rinascita, l’aura letterata e colta. Trieste scelta e amata da grandi scrittori come Joyce e Stendhal; Trieste madre e padre di Saba e di Svevo; l’est Europa alle porte, la cultura mitteleuropea che ancora si respira, che entra decisa anche nei sapori della sua cucina. Sbatte le porte come il vento che qui talvolta soffia davvero forte, facendo rotolare la salsedine per le stradine dei suoi storici rioni. Cosa non perdere di Trieste Trieste è un mondo da scoprire. In completa autonomia oppure organizzando interessanti visite guidate. Vediamo quali sono le cose assolutamente da vedere per conoscere la città. La città Vecchia A sud della monumentale piazza Unità d’Italia affacciata sul mare, si sviluppano i rioni compresi nella città Vecchia di Trieste (San Vito, Cavana e ghetto Ebraico), stretta tra il colle di San Giusto e il mare. Qui si trovano alcuni dei monumenti più antichi della città come la cattedrale di San Giusto, la chiesa barocca di Santa Maria Maggiore, l’arco di Riccardo di epoca romana (I secolo d.C.) con le sue colonne in stile corinzio sito in piazza Barbacan e il teatro romano, ogni anno splendida cornice ai più importanti eventi cittadini. Nel rione di San Vito, in piazza Attilio Hortis si trova la statua di Italo Svevo, nei pressi della quale si trovano il museo Revoltella e il Civico museo Sartorio. Piazza Unità d’Italia e il molo Audace Maestosa e spazzata dalla salsedine e dalle brezze dell’Adriatico. La cornice monumentale e iconica della città. Da sinistra a destra qui si trovano il palazzo della Luogotenenza tedesca, palazzo Stratti con lo storico caffè degli Specchi, palazzo Modello oggi sede del Municipio, l’antico palazzo Pitteri, l’albergo di palazzo Vanoli e il palazzo della Regione. Al centro si erge la fontana dei quattro continenti (1751-1754). Il molo Audace che si allunga davanti alla piazza prende il nome dalla prima nave che entrò in porto dopo la fine della grande Guerra e la conseguente annessione all’Italia. Da notare la rosa dei Venti in bronzo affissa all’inizio del molo e ottenuta dalla fusione di una nave austriaca affondata dalla marina Italiana. La cattedrale di San Giusto Nasce all’inizio del Trecento dall’unione di due chiese preesistenti, Santa Maria e San Giusto. Sobria facciata in mattoni con rosone gotico. il portale riutilizza gli elementi di una stele funeraria romana. Sul muro del campanile, eretto inglobando i resti di un tempio romano e di un’edicola intitolata a San Giusto, vi sono incastrate ancora alcune canne di cannone. L’interno è decorato con splendidi affreschi di scuola veneziana e con un grande mosaico trecentesco. Dalla cattedrale si accede all’adiacente battistero e al museo del Tesoro, nelle cui sale spicca l’alabarda di San Sergio recuperata in terra Santa durante la prima Crociata 1096-1099. Il castello di San Giusto La fortezza posta sulla sommità del colle omonimo rappresenta il nucleo più antico della città nonché uno dei suoi simboli più amati e famosi. Il cuore del castrum risale ai Romani e nel corso dei secoli ha subito le modifiche apportate da Veneziani e Austro-Ungarici. Il castello è sede del museo Civico di Trieste, le cui sale custodiscono una ricca collezioni di armi e il suggestivo lapidario Tergestino con oltre 130 reperti di epoca romana di pregevole fattura. La sinagoga di Trieste Per capire appieno quanto la comunità ebraica è stata centrale nello sviluppo della città, della sua anima multietnica e di frontiera, basta fermarsi ad ammirare la bellezza architettonica e la vita che scorre dentro e fuori la sinagoga cittadina. Da notare gli stupendi rosoni, i pavimenti, le decorazioni e i lampadari di questo, ancora oggi, importante edificio religioso cittadino eretto nel 1912. Il castello di Miramare Il “nido d’amore costruito invano” ricordato da Giosué Carducci in una poesia dedicata proprio al castello, fu eretto a metà Ottocento da Massimiliano d’Asburgo-Lorena arciduca d’Austria e oggi è uno dei musei più visitati d’Italia. L’elegante e suggestiva struttura in pietra chiara affacciata sul golfo di Trieste conserva ancora gli arredi originali dell’epoca e numerose testimonianze della vita dei proprietari, l’arciduca Massimiliano e sua moglie Carlotta del Belgio, prima di diventare la residenza del duca Amedeo d’Aosta. Da segnalare all’interno la sfarzosa sala dei Regnanti, la bella sala della Musica e la sala ispirata all’arredamento navale della fregata Novara sulla quale Massimiliano aveva prestato servizio nella Marina Austriaca. L’esterno invece si caratterizza per il parco e per il superbo giardino all’inglese, che permettono di effettuare piacevoli passeggiate davanti al mare. Il castello è visitabile in completa autonomia o con tour privato. Il borgo Teresiano A nord di piazza Unità d’Italia, superato lo scenografico canal Grande si sviluppa come una piccola scacchiera il suggestivo borgo Teresiano, tra i quartieri storici più noti di Trieste realizzato per volere dell’imperatore d’Austria Carlo VI. Lungo il canal Grande sfilano alcuni tra gli edifici più belli, come palazzo Aedes, palazzo Gopcevich, la chiesa neoclassica di Sant’Antonio Nuovo, lo storico caffè Stella Polare, palazzo Genel, palazzo Carciotti e il bellissimo tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione. Sul suggestivo ponte Rosso che attraversa romanticamente il canale, il secondo insieme al ponte Verde, si trova la statua di James Joyce. La risiera di San Sabba Questo stabilimento per la pilatura del riso – che comprende pulitura, sbramatura, sbiancata e lucidatura – si trova a circa 5 km da piazza Unità d’Italia stretta tra il mare e i quartieri di Servola, Valmaura e borgo San Sergio. Rimase in funzione tra il 1913 e il 1943, l’anno dell’armistizio, quando i nazisti lo trasformarono in campo di prigionia, nel quale persero la vita oltre 3500 persone e altre 8000 da qui furono deportate nei campi di sterminio del nord ed est Europa. Oggi la Risiera di San Sabba è un museo da visitare assolutamente, archeologia industriale e memoria storica. Il faro della Vittoria Costruito nel 1923 in pieno fascismo, il faro ricorda i marinai italiani caduti durante la Grande Guerra. Sulla sommità, la statua della Vittoria Alata è alta 7 m ed è dotata di un complesso meccanismo interno che le fa impercettibilmente sbattere le ali per assorbire le folate di vento, che qui a Trieste con la bora è risaputo possono essere anche molto violente. Il faro sotto alla statua è ancora oggi il più potente dell’Adriatico. Il tram panoramico di Opicina Presto si spera che torni definitivamente in servizio il suggestivo tram che collega il centro città con le alture del Carso che si innalzano spigolose alle sue spalle. Un modo davvero curioso e singolare di scoprire la città e ammirarla dall’alto man mano che il tram lentamente si inerpica sulle alture. La grotta Gigante Questa enorme cavità risalente al Neolitico è una delle attrazioni principali di Trieste e si trova a circa 10 km dal centro nei pressi del borgo omonimo. Le concrezioni rocciose createsi nel corso di migliaia di anni hanno dato un fondamentale impulso alla speleologia modena. A circa 80 m di profondità si raggiunge la galleria Grande alta, un unico e sterminato ambiente alto quasi 100 m dove stalagmiti, stalattiti e colta di carbonato di calcio assumono infinite sfumature di colore, tra le quali la colonna Ruggero, alta 12 m. Scoprire Trieste: i caffè storici Pare che seduto ai tavoli della storica pasticceria Pirona Joyce abbia scritto non poche pagine sia dell’Ulisse che di Gente di Dublino e, insieme a lui, alcune tra le più illustri personalità della letteratura e della poesia come i triestini Umberto Saba e Italo Svevo (al quale è dedicato l’interessante museo Sveviano) o lo scrittore francese Stendhal hanno lungamente frequentato i caffè storici di Trieste. Si segnalano tra questi il caffè Tommaseo del 1830, è il più antico della città, il caffè degli Specchi in piazza dell’Unità e il caffè San Marco. Scoprire Trieste: i sapori e i piatti tipici La cucina triestina è una delle più famose d’Italia ed è innanzitutto caratterizzata da una secolare influenza austro-ungarica mitigata da alternative proposte di pesce e dai sapori dell’Adriatico. Una forma tipica di ristorazione a Trieste, in alternativa alle trattorie e ai ristoranti, sono i tradizionali buffet, a metà tra un bar e una trattoria, dove le carni sono cotte ancora oggi nella tradizionale caldaia, un pentolone incastonato nel bancone. Tra i piatti tipici ci sono dunque il prosciutto cotto caldo triestino tagliato rigorosamente a mano, il liptauer (spuma di formaggi insaporita con paprika e cumino), i formaggi Jamar (stagionato nelle grotte del Carso) e Tabor, la granzievola alla triestina (polpa di granchio con olio, sale, pepe, limone e prezzemolo servita nel suo guscio), la Jota (minestra di fagioli, crauti, patate e salsiccia o cotenna), i fusi istriani (tipo garganelli) con sugo di pesce o di carne, la zuppa de bobici (mais e fagioli), gli gnocchi di patate, di pane, di fegato o di susine (prugne), oppure come accompagnamento al tradizionale goulash. Tra i secondi piatti, di pesce o di carne, oltre al goulash ci sono anche il bollito in tecia con senape, crauti e patate, i cevapcici (salsicce speziate di origine balcanica), la porzina con capuzi (coppa di maiale lessa servita con crauti, senape e rafano), la calandraca (spezzatino di lesso con patate e poco pomodoro) l’agnello al kren (salsa al rafano), le immortali canocchie alla busara (pomodoro, pepe e vino), le alici in savore, i pedoci alla scotadeo (cozze alla scottadito), il baccalà mantecato e infine il merluzzo all’istriana con capperi, acciughe e patate. Lo street food non è di certo da meno in quanto a prelibatezze, come dimostra ampiamente il gustoso panino con porzina (maiale), crauti, senape e rafano. Tra i dolci infine ricordiamo il classico strucolo de pomi (strudel di mele), la pinza (pasta lievitata con rum, bucce d’arancia grattugiate, limone e vaniglia) la torta Rigojanci di origine ungherese e a base di cioccolato, il presniz (pasta sfoglia con susine e frutta secca), il koch (soufflé a base di burro e zucchero montati, pangrattato e uova con frutta, semolino o riso) e infine il cuguluf, anche questo di ispirazione austriaca che assomiglia a un plum cake con uvetta e buccia di limone. Scoprire Trieste: il Prosecco e i vini del Carso Sarebbe impensabile non visitare Trieste senza scoprire e assaggiare i vini del suo territorio, alcuni dei quali considerati tra i vini italiani più famosi al mondo. Trieste e tutto il Friuli-Venezia Giulia sono insieme al Veneto territorio per eccellenza votato alla produzione del prosecco. Molti sono i produttori e molte le cantine presenti sul territorio, da scoprire magari organizzando e prenotando degustazioni guidate. In città ci sono inoltre innovativi winebar pronti a farvi assaggiare i vini del territorio, quelli coltivati sugli aspri altipiani del Carso che si aprono come una corona intorno a Trieste. Terreni fatti di roccia. Aridi, sassosi e ricchi di ferro, che danno vita a vini DOC come la Vitovska, il Terrano (Refosco friulano) e la dolce e aromatica Malvasia istriana, tutti vitigni autoctoni che aspettano solo di essere scoperti. https://ift.tt/31ZRMQa Cosa mangiare a Trieste: i sapori da non perdere Quest’anno Trieste è capitale Europea della Scienza. Non che occorressero ulteriori motivi per andare alla scoperta di questa stupenda città italiana dalla storia grandiosa. Elegante, rigorosa, quasi algida. Del resto una delle sue tante anime è austriaca. Città di frontiera, enigmatica. Trieste affascina per la sovrapposizione armoniosa delle sue storie: l’antica Roma, Venezia e poi l’Austria; l’annessione dopo la grande Guerra, i crimini perpetrati da fascisti e nazisti; le ferite profonde poi la rinascita, l’aura letterata e colta. Trieste scelta e amata da grandi scrittori come Joyce e Stendhal; Trieste madre e padre di Saba e di Svevo; l’est Europa alle porte, la cultura mitteleuropea che ancora si respira, che entra decisa anche nei sapori della sua cucina. Sbatte le porte come il vento che qui talvolta soffia davvero forte, facendo rotolare la salsedine per le stradine dei suoi storici rioni. Cosa non perdere di Trieste Trieste è un mondo da scoprire. In completa autonomia oppure organizzando interessanti visite guidate. Vediamo quali sono le cose assolutamente da vedere per conoscere la città. La città Vecchia A sud della monumentale piazza Unità d’Italia affacciata sul mare, si sviluppano i rioni compresi nella città Vecchia di Trieste (San Vito, Cavana e ghetto Ebraico), stretta tra il colle di San Giusto e il mare. Qui si trovano alcuni dei monumenti più antichi della città come la cattedrale di San Giusto, la chiesa barocca di Santa Maria Maggiore, l’arco di Riccardo di epoca romana (I secolo d.C.) con le sue colonne in stile corinzio sito in piazza Barbacan e il teatro romano, ogni anno splendida cornice ai più importanti eventi cittadini. Nel rione di San Vito, in piazza Attilio Hortis si trova la statua di Italo Svevo, nei pressi della quale si trovano il museo Revoltella e il Civico museo Sartorio. Piazza Unità d’Italia e il molo Audace Maestosa e spazzata dalla salsedine e dalle brezze dell’Adriatico. La cornice monumentale e iconica della città. Da sinistra a destra qui si trovano il palazzo della Luogotenenza tedesca, palazzo Stratti con lo storico caffè degli Specchi, palazzo Modello oggi sede del Municipio, l’antico palazzo Pitteri, l’albergo di palazzo Vanoli e il palazzo della Regione. Al centro si erge la fontana dei quattro continenti (1751-1754). Il molo Audace che si allunga davanti alla piazza prende il nome dalla prima nave che entrò in porto dopo la fine della grande Guerra e la conseguente annessione all’Italia. Da notare la rosa dei Venti in bronzo affissa all’inizio del molo e ottenuta dalla fusione di una nave austriaca affondata dalla marina Italiana. La cattedrale di San Giusto Nasce all’inizio del Trecento dall’unione di due chiese preesistenti, Santa Maria e San Giusto. Sobria facciata in mattoni con rosone gotico. il portale riutilizza gli elementi di una stele funeraria romana. Sul muro del campanile, eretto inglobando i resti di un tempio romano e di un’edicola intitolata a San Giusto, vi sono incastrate ancora alcune canne di cannone. L’interno è decorato con splendidi affreschi di scuola veneziana e con un grande mosaico trecentesco. Dalla cattedrale si accede all’adiacente battistero e al museo del Tesoro, nelle cui sale spicca l’alabarda di San Sergio recuperata in terra Santa durante la prima Crociata 1096-1099. Il castello di San Giusto La fortezza posta sulla sommità del colle omonimo rappresenta il nucleo più antico della città nonché uno dei suoi simboli più amati e famosi. Il cuore del castrum risale ai Romani e nel corso dei secoli ha subito le modifiche apportate da Veneziani e Austro-Ungarici. Il castello è sede del museo Civico di Trieste, le cui sale custodiscono una ricca collezioni di armi e il suggestivo lapidario Tergestino con oltre 130 reperti di epoca romana di pregevole fattura. La sinagoga di Trieste Per capire appieno quanto la comunità ebraica è stata centrale nello sviluppo della città, della sua anima multietnica e di frontiera, basta fermarsi ad ammirare la bellezza architettonica e la vita che scorre dentro e fuori la sinagoga cittadina. Da notare gli stupendi rosoni, i pavimenti, le decorazioni e i lampadari di questo, ancora oggi, importante edificio religioso cittadino eretto nel 1912. Il castello di Miramare Il “nido d’amore costruito invano” ricordato da Giosué Carducci in una poesia dedicata proprio al castello, fu eretto a metà Ottocento da Massimiliano d’Asburgo-Lorena arciduca d’Austria e oggi è uno dei musei più visitati d’Italia. L’elegante e suggestiva struttura in pietra chiara affacciata sul golfo di Trieste conserva ancora gli arredi originali dell’epoca e numerose testimonianze della vita dei proprietari, l’arciduca Massimiliano e sua moglie Carlotta del Belgio, prima di diventare la residenza del duca Amedeo d’Aosta. Da segnalare all’interno la sfarzosa sala dei Regnanti, la bella sala della Musica e la sala ispirata all’arredamento navale della fregata Novara sulla quale Massimiliano aveva prestato servizio nella Marina Austriaca. L’esterno invece si caratterizza per il parco e per il superbo giardino all’inglese, che permettono di effettuare piacevoli passeggiate davanti al mare. Il castello è visitabile in completa autonomia o con tour privato. Il borgo Teresiano A nord di piazza Unità d’Italia, superato lo scenografico canal Grande si sviluppa come una piccola scacchiera il suggestivo borgo Teresiano, tra i quartieri storici più noti di Trieste realizzato per volere dell’imperatore d’Austria Carlo VI. Lungo il canal Grande sfilano alcuni tra gli edifici più belli, come palazzo Aedes, palazzo Gopcevich, la chiesa neoclassica di Sant’Antonio Nuovo, lo storico caffè Stella Polare, palazzo Genel, palazzo Carciotti e il bellissimo tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione. Sul suggestivo ponte Rosso che attraversa romanticamente il canale, il secondo insieme al ponte Verde, si trova la statua di James Joyce. La risiera di San Sabba Questo stabilimento per la pilatura del riso – che comprende pulitura, sbramatura, sbiancata e lucidatura – si trova a circa 5 km da piazza Unità d’Italia stretta tra il mare e i quartieri di Servola, Valmaura e borgo San Sergio. Rimase in funzione tra il 1913 e il 1943, l’anno dell’armistizio, quando i nazisti lo trasformarono in campo di prigionia, nel quale persero la vita oltre 3500 persone e altre 8000 da qui furono deportate nei campi di sterminio del nord ed est Europa. Oggi la Risiera di San Sabba è un museo da visitare assolutamente, archeologia industriale e memoria storica. Il faro della Vittoria Costruito nel 1923 in pieno fascismo, il faro ricorda i marinai italiani caduti durante la Grande Guerra. Sulla sommità, la statua della Vittoria Alata è alta 7 m ed è dotata di un complesso meccanismo interno che le fa impercettibilmente sbattere le ali per assorbire le folate di vento, che qui a Trieste con la bora è risaputo possono essere anche molto violente. Il faro sotto alla statua è ancora oggi il più potente dell’Adriatico. Il tram panoramico di Opicina Presto si spera che torni definitivamente in servizio il suggestivo tram che collega il centro città con le alture del Carso che si innalzano spigolose alle sue spalle. Un modo davvero curioso e singolare di scoprire la città e ammirarla dall’alto man mano che il tram lentamente si inerpica sulle alture. La grotta Gigante Questa enorme cavità risalente al Neolitico è una delle attrazioni principali di Trieste e si trova a circa 10 km dal centro nei pressi del borgo omonimo. Le concrezioni rocciose createsi nel corso di migliaia di anni hanno dato un fondamentale impulso alla speleologia modena. A circa 80 m di profondità si raggiunge la galleria Grande alta, un unico e sterminato ambiente alto quasi 100 m dove stalagmiti, stalattiti e colta di carbonato di calcio assumono infinite sfumature di colore, tra le quali la colonna Ruggero, alta 12 m. Scoprire Trieste: i caffè storici Pare che seduto ai tavoli della storica pasticceria Pirona Joyce abbia scritto non poche pagine sia dell’Ulisse che di Gente di Dublino e, insieme a lui, alcune tra le più illustri personalità della letteratura e della poesia come i triestini Umberto Saba e Italo Svevo (al quale è dedicato l’interessante museo Sveviano) o lo scrittore francese Stendhal hanno lungamente frequentato i caffè storici di Trieste. Si segnalano tra questi il caffè Tommaseo del 1830, è il più antico della città, il caffè degli Specchi in piazza dell’Unità e il caffè San Marco. Scoprire Trieste: i sapori e i piatti tipici La cucina triestina è una delle più famose d’Italia ed è innanzitutto caratterizzata da una secolare influenza austro-ungarica mitigata da alternative proposte di pesce e dai sapori dell’Adriatico. Una forma tipica di ristorazione a Trieste, in alternativa alle trattorie e ai ristoranti, sono i tradizionali buffet, a metà tra un bar e una trattoria, dove le carni sono cotte ancora oggi nella tradizionale caldaia, un pentolone incastonato nel bancone. Tra i piatti tipici ci sono dunque il prosciutto cotto caldo triestino tagliato rigorosamente a mano, il liptauer (spuma di formaggi insaporita con paprika e cumino), i formaggi Jamar (stagionato nelle grotte del Carso) e Tabor, la granzievola alla triestina (polpa di granchio con olio, sale, pepe, limone e prezzemolo servita nel suo guscio), la Jota (minestra di fagioli, crauti, patate e salsiccia o cotenna), i fusi istriani (tipo garganelli) con sugo di pesce o di carne, la zuppa de bobici (mais e fagioli), gli gnocchi di patate, di pane, di fegato o di susine (prugne), oppure come accompagnamento al tradizionale goulash. Tra i secondi piatti, di pesce o di carne, oltre al goulash ci sono anche il bollito in tecia con senape, crauti e patate, i cevapcici (salsicce speziate di origine balcanica), la porzina con capuzi (coppa di maiale lessa servita con crauti, senape e rafano), la calandraca (spezzatino di lesso con patate e poco pomodoro) l’agnello al kren (salsa al rafano), le immortali canocchie alla busara (pomodoro, pepe e vino), le alici in savore, i pedoci alla scotadeo (cozze alla scottadito), il baccalà mantecato e infine il merluzzo all’istriana con capperi, acciughe e patate. Lo street food non è di certo da meno in quanto a prelibatezze, come dimostra ampiamente il gustoso panino con porzina (maiale), crauti, senape e rafano. Tra i dolci infine ricordiamo il classico strucolo de pomi (strudel di mele), la pinza (pasta lievitata con rum, bucce d’arancia grattugiate, limone e vaniglia) la torta Rigojanci di origine ungherese e a base di cioccolato, il presniz (pasta sfoglia con susine e frutta secca), il koch (soufflé a base di burro e zucchero montati, pangrattato e uova con frutta, semolino o riso) e infine il cuguluf, anche questo di ispirazione austriaca che assomiglia a un plum cake con uvetta e buccia di limone. Scoprire Trieste: il Prosecco e i vini del Carso Sarebbe impensabile non visitare Trieste senza scoprire e assaggiare i vini del suo territorio, alcuni dei quali considerati tra i vini italiani più famosi al mondo. Trieste e tutto il Friuli-Venezia Giulia sono insieme al Veneto territorio per eccellenza votato alla produzione del prosecco. Molti sono i produttori e molte le cantine presenti sul territorio, da scoprire magari organizzando e prenotando degustazioni guidate. In città ci sono inoltre innovativi winebar pronti a farvi assaggiare i vini del territorio, quelli coltivati sugli aspri altipiani del Carso che si aprono come una corona intorno a Trieste. Terreni fatti di roccia. Aridi, sassosi e ricchi di ferro, che danno vita a vini DOC come la Vitovska, il Terrano (Refosco friulano) e la dolce e aromatica Malvasia istriana, tutti vitigni autoctoni che aspettano solo di essere scoperti. Trieste è una città affascinante e ricca di attrazioni culturali ed enogastronomiche, perfette per un tuffo nella storia e nell’arte del nostro Paese.
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pangeanews · 5 years
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“Scrivere non è predicare una verità. È scoprirla”. Milan Kundera compie 90 anni! Lo festeggiamo con una intervista in cui parla di politica (“uno show tragico”), scrittura, Europa, ruolo del romanzo etc.
Milan Kundera è l’ultimo, autorevole, rappresentante del romanzo europeo. Il romanzo europeo è un romanzo ‘di idee’ rispetto a quello americano, ‘di trama’. In Europa si pensa, in Usa si fa (e si dis-fa). Da quando l’Europa ha smesso di pensare – pensando con la testa di altri – la letteratura – perciò, l’Europa in sé – è in disarmo: non dialoga, subisce.
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“Durante le varie fasi della storia del romanzo, nazioni diverse si sono per così dire passate il testimone: prima l’Italia con Boccaccio, il grande precursore; poi la Francia di Rabealis; poi la Spagna di Cervantes e del romanzo picaresco; nel Settecento fu la volta del grande romanzo inglese con l’intervento, sul finire del secolo, del tedesco Goethe; l’Ottocento appartiene invece, interamente, alla Francia, pur tenendo conto dell’ingresso del romanzo russo, negli ultimi trent’anni del secolo, e della comparsa, subito dopo, di quello scandinavo. Viene, poi, il Novecento e la vicenda mitteleuropea con Kafka, Musil, Broch, Gombrowicz… Se l’Europa fosse una nazione unica, non credo che la storia del suo romanzo avrebbe potuto protrarsi per quattro secoli con tanta vitalità, tanta forza e tanta varietà”. La lezione narrativa di Kundera – simile a quella di Thomas S. Eliot – ha nitidezza politica. Ascoltate i grandi scrittori, gente.
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In effetti. Manzoni, George Eliot, Victor Hugo, Dostoevskij, Tolstoj, Gombrowicz, Martin Amis… Lo scrittore europeo fa agire il pensiero, si erge nel golfo della contraddizione, si contraddistingue perdendosi. Nel cinema accade lo stesso: da Fellini a Bergman, da Antonioni a Herzog e Kieslowski, agiscono le visioni e la frizione dei sentimenti, non l’azione. L’abominio del pensiero in favore dello ‘spettacolo’ ha garantito la nostra smisurata piccolezza rispetto alla muscolarità visiva – non visionaria – americana e – vedrete, vedremo – all’epica cinese.
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Il bilinguismo come tradizione dell’intelletto ‘europeo’. Kundera, si sa, scrive in ceco e in francese. Beckett scriveva in inglese e in francese come Nabokov parte dal russo per arrivare all’inglese. Joseph Conrad, ucraino, parlava in francese e ha scritto in una magnetica prosa inglese. Brodskij scrive le poesie in russo e i saggi in inglese. Rilke, praghese, si esprimeva in tedesco e in francese. Manzoni scriveva in italiano ma nelle lettere detta nella lingua degli intellettuali del tempo, il francese; Dante inventa il volgare, scrive in latino, legge i provenzali. Natura dello scrittore europeo è varcare i linguaggi (perché l’anima dell’uomo ha vastità linguistica, è lingua) – restando nel proprio.
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In un testo “In omaggio a Stravinskij” raccolto ne I testamenti traditi, Kundera centra il lavoro dello scrittore. “Da sempre detesto, profondamente, violentemente, quelli che in un’opera d’arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa ecc.), invece di cercarvi una intenzione di conoscere, di capire, di cogliere questo o quell’aspetto della realtà”.
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Ogni tentativo di conoscere – senza sbandierare opinioni o sbraitare – è atto d’offesa. Un romanzo, se è grande, è tormento: scortica con il taglierino. L’ironia cinica di Kundera è il bisturi di chi ti stacca la calotta cranica mentre cammini, ebete, nelle vie del centro.
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A proposito: le accuse di MK contro il ‘pubblico’, le chiacchiere da social bar. “Ma il conformismo dell’opinione pubblica è una forza che si è eretta a tribunale, e il tribunale non può perdere tempo con i pensieri, il suo compito è quello di istituire processi. E a mano a mano che fra giudici e accusati si scava l’abisso del tempo, le grandi esperienze vengono giudicate sempre più spesso da esperienze inferiori. Così gli errori di Céline vengono giudicati da persone immature, incapaci di vedere come, proprio in virtù di quegli errori, i romanzi di Céline contengano un sapere esistenziale che, a saperlo intendere, potrebbe renderle più adulte. Perché in questo consiste il potere della cultura: nel riscattare l’orrore transustanziandolo in saggezza esistenziale”.
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Nel 1985, quando Milan Kundera è già un ‘fenomeno mondiale’ in virtù de L’insostenibile leggerezza dell’essere, Olga Carlisle lo intervista per il New York Times. L’intervista si intitola, banalmente, A Talk With Milan Kundera. Festeggiare Kundera significa omaggiare la propria intelligenza, per questo, abbiamo deciso di tradurre l’intervista. Con formidabile perizia profetica, qui Kundera allinea i suoi temi più cari. (d.b.)
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OC (Olga Carlisle) Per dieci anni, più o meno, hai vissuto in Francia. Ti senti un émigré, un Francese, un Ceco o solo un Europeo senza nazionalità specifica?
MK Quando gli uomini di pensiero tedeschi lasciarono il loro stato per l’America negli anni Trenta, erano sicuri che vi sarebbero tornati, un giorno. Consideravano la loro permanenza all’estero come temporanea. D’altro canto io non ho speranza in alcun genere di ritorno. La mia soluzione francese è definitiva e perciò non sono un émigré. Ora la Francia è la mia unica patria. Né mi sento privo di radici. Per mille anni la Cecoslovacchia è stata una parte dell’Occidente. Oggi essa è parte dell’impero a Est. Mi sentirei molto più sradicato a Praga che a Parigi.
OC Ma scrivi ancora in ceco?
MK Scrivo i saggi in francese, ma le storie in ceco perché le mie esperienze di vita e la mia immaginazione sono ancorate alla Boemia, a Praga.
OC Fu Milos Forman, ben prima di te, a rendere nota la Cecoslovacchia al più vasto pubblico occidentale, con film come “Al fuoco, pompieri!”.
MK Davvero lui incarna quel che chiamo lo spirito fine di Praga – lui con altri registi cechi, Ivan Passer e Jan Nemec. Quando Milos viene a Parigi, sono tutti scossi, stupiti. Com’è possibile che un regista così famoso sia così libero da ogni sentimento snob? A Parigi, dove nemmeno una commessa alle Galeries Lafayette sa come ci si comporta in modo naturale, la semplicità di Forman risulta semplicemente come una provocazione.
OC Come definiresti “il sottile spirito di Praga”?
MK Hai Il Castello e Il buon soldato Schweik di Hasek che sono tutti percorsi da questo sentimento, un senso straordinario verso la realtà. Prendi il punto di vista di un uomo normale, la storia vista a partire dal basso, una semplicità che ti provoca, con un genio per le assurdità. E un senso dell’umorismo con pessimismo infinito. Ad esempio, un Ceco richiede un visto per emigrare, e l’officiale gli domanda ‘Dove vuoi andare?’. ‘Non importa’, risponde l’uomo, al quale viene dato un mappamondo. ‘Prego, scelga’. Ora l’uomo guarda il mappamondo, vi scorre sopra il dito lentamente e dice ‘Non ne ha un altro?’.
OC Ma oltre alle tue radici praghesi, quali altri amori letterari ti hanno formato?
MK Per primi i romanzieri francesi Rabelais e Diderot. A mio giudizio il vero fondatore, il re della letteratura francese è Rabelais. Con Jacques il Fatalista di Diderot il quale ha portato il sentimento di Rabelais dentro il Dciottesimo secolo. Non fatevi sviare dal fatto che Diderot fosse un filosofo: il suo romanzo non può essere ridotto a nessun tipo di discorso filosofico: è una recita dell’ironia, il romanzo più libero che sia mai stato scritto, la libertà volta in romanzo. Ne ho fatto recentemente un adattamento teatrale ed è stato messo in scena da Susan Sontag a Cambridge, Mass. come Jacques e il suo padrone [gennaio 1985, American Repertory Theater]
OC E le tue altre radici?
MK Il romanzo dell’Europa di mezzo, quello del nostro secolo. Kafka, Robert Musil, Hermann Broch, Witold Gombrovicz. Questi romanzieri sono malfidati in modo meraviglioso di quel che Malraux chiama “illusioni liriche”. E malfidati verso le illusioni che riguardano il progresso, il kitsch della speranza. Sto con loro a condividere una tristezza sul crepuscolo dell’Occidente: ma non è una faccenda sentimentale, è più ironica. E la mia terza radica è: la poesia ceca moderna. Per me è stata un’ottima scuola di immaginazione.
OC E tra questi poeti c’è anche Jaroslav Seifert? Avrebbe meritato di vincere il Nobel nel 1984?
MK Certamente. E si sentiva che è stato il primo a venir proposto nel 1968, ma la giuria fu prudente. Temevano che il gesto sarebbe stato considerato come pura simpatia per uno stato allora recentemente occupato. E il premio è giunto troppo tardi [1984], tardi per il popolo ceco che era stato umiliato, tardi per la poesia ceca la cui grande epoca era conclusa da tempo, tardi per Seifert che ora ha 83 anni. Si dice che quando l’ambasciatore svedese giunse al suo letto d’ospedale per dirgli dell’onore, Seifert l’abbia guardato a lungo. Ma poi gli disse ‘E che me ne faccio ora di tutti questi soldi?’.
OC E a proposito di letteratura russa, ti tocca ancora, o gli eventi del 1968 te la fanno gustare male?
MK Mi piace molto Tolstoj. È più moderno di Dostoevskij. Tolstoj fu forse il primo ad afferrare la componente irrazionale nel comportamento umano. Il ruolo della stupidità – ma soprattutto delle azioni umane guidate da qualcosa di nascosto, non controllato, non controllabile, e che non rientra nel conteggio finale. Rileggete i passaggi che precedono la morte di Anna Karenina. Perché si uccide se davvero non vuole farlo? Come nasce la sua decisione? Per catturare queste ragioni, irrazionali ed elusive, Tolstoj scatta una foto del flusso di coscienza di Anna. Sta in carrozza; le immagini della strada si mescolano nella sua testa coi suoi pensieri illogici, frammentati. Perciò vedete che il creatore dello “stream” non è Joyce ma Tolstoj, in queste poche pagine di Anna Karenina. Raramente lo si riconosce, perché Tolstoj è tradotto male: ho letto una volta una traduzione francese di questo passo ed ero stupefatto, quel che nel testo originale è illogico e a frammenti diventava logico e razionale in lingua francese. Come se l’ultimo capitolo dell’Ulisse fosse riscritto e al lungo monologo di Molly fosse data una punteggiatura logica e convenzionale. Purtroppo, i nostri traduttori ci tradiscono, non osano tradurre l’inusuale nei nostri testi – il non comune, l’originale. Temono che le critiche li accuseranno di tradurre male. E per proteggerci, fanno carne di porco del lettore. Avete idea di quanto tempo ed energia ho speso a correggere le traduzioni dei miei libri?
OC Parli con affetto di tuo padre ne “Il libro del riso e dell’oblio”.
MK Era un pianista con una passione per la musica moderna, Stravinskij, Bartok, Schönberg, Janacek. Si spese per far accettare Leos Janacek come un artista, e Janacek era un compositore moderno affascinante, senza paragoni, impossibile classificarlo. La sua opera Dalla casa dei morti, tratta da Dostoevskij, è uno dei grandi lavori profetici del nostro secolo come Il processo o Guernica. Mio padre eseguiva questa musica complessa in sale da concerto semivuote. E da bambino io odiavo il pubblico che rifiutava di ascoltare Stravinskij e poi applaudiva Tchaikovskij o Mozart. Ho mantenuto una passione per l’arte moderna; questa è fedeltà a mio padre. Però mi sono rifiutato di proseguire nella sua professione, la musica mi piaceva, i musicisti no. Vivere in mezzo a loro era per me come mettermi un bavaglio con le mie mani. Quando lasciai la Cecoslovacchia con mia moglie, potemmo prendere solo pochi libri, scegliemmo Il centauro di John Updike, toccava qualcosa di profondo in me, un amore che sta per morire verso un padre umiliato, sconfitto
OC E ne “Il libro del riso” colleghi la memoria di tuo padre a un racconto su Tamina che vive su un’isola dove ci sono solo bambini.
MK Quel racconto è un sogno, sogno fatto da una immagine che mi perseguita. Pensate di essere forzati per il resto dei vostri giorni a rimanere circondati da bambini, senza poter mai parlare da adulti: che incubo. L’immagine da dove arriva? Non lo so, non analizzo mica i miei sogni, meglio passarli a qualche racconto.
OC I bambini hanno un posto strano nei tuoi libri. Ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere” i bambini torturano un corvo e Tereza dice all’improvviso a Tomas “Ti sono grata per non aver voluto dei bambini”. Poi però uno trova nei tuoi libri della tenerezza verso gli animali, e nell’ultimo c’è un maiale che è quasi un personaggio stimabile. Non sarà un poco kitsch?
MK Non penso lo sia. Kitsch è desiderio di piacere a tutti i costi. Parlare bene degli animali e guardare scetticamente ai bambini non può piacere troppo al pubblico, può persino irritare, leggermente. Non che abbia nulla contro i bambini: ma il kitsch che li circonda mi dà fastidio. Qui in Francia, prima delle elezioni, tutti i partiti politici fanno i loro poster, ognuno con gli stessi slogan su un futuro migliore e sempre foto di bambini che sorridono, corrono e giocano. Purtroppo, il nostro futuro umano non è l’infanzia ma l’età adulta. Il vero umanesimo di una società si rivela nella sua attitudine verso l’età della vecchiaia. La quale è l’unico futuro che ognuno di noi ha davanti e che non sarà mai mostrato sui poster. Né a sinistra né a destra.
OC Vedo che la polemica destra e sinistra non ti esalta troppo.
MK Il pericolo che ci minaccia è l’impero totalitario. Khomeini, Mao, Stalin – sinistra o destra? Il totalitarismo non è né l’una cosa né l’altra, al suo interno queste distinzioni si essiccano. Non sono mai stato credente, ma dopo aver visto i cechi cattolici perseguitati durante il terrore staliniano ho provato la più profonda solidarietà verso di loro. Quel che ci separava, la fede in Dio, veniva dopo a quel che ci univa. Una solidarietà da impiccati. Quindi la stupidissima battaglia tra sinistra e destra mi pare obsolete e abbastanza provinciale. Odio partecipare alla vita politica, benché poi la politica mi affascini come show: uno show tragico, mortale nell’impero dell’Est – intellettualmente sterile ma divertente qui a Ovest.
OC A volte di dice, paradossalmente, che l’oppressione dia più serietà e vitalità ad arte e letteratura.
MK Ma non siamo romantici! Quando l’oppressione continua a durare, può distruggere una cultura da cima a fondo. La cultura vuole una vita pubblica, libero scambio di idee, necessita di pubblicazioni, esibizioni, dibattiti, confini transitabili. Pure, per del tempo, la cultura può durare in circostanze molto difficili. Dopo l’invasione russa del 1968, quasi tutta la letteratura ceca fu bandita e circolava solo in manoscritti. Una vita culturale aperta e pubblica veniva distrutta e nondimeno la letteratura degli anni Settanta è stata splendida. La prosa di Hrabal, Grusa, Skvorecky. È stato allora, al tempo più impossibile della sua esistenza, che la letteratura ceca ha ottenuto riconoscimento internazionale. Ma quanto a lungo riesce a sopravvivere nei tubi, sottoterra? Chi lo sa. L’Europa non ha mai provato situazioni simili, prima. Quando si arriva alla sventura delle nazioni, non dobbiamo dimenticare la dimensione temporale. In uno stato di fascisti, di dittatori, tutti sanno che la storia finirà un certo giorno. Tutti guardano verso la fine del tunnel. Nell’impero dell’Est il tunnel non ha fine – perlomeno dal punto di vista di una vita umana, adesso. Ecco perché non mi piace che si paragoni la Polonia, per dire, col Cile. Sì, la tortura e le sofferenze sono le stesse ma i tunnel hanno lunghezza davvero diversa. Questo cambia tutto. E l’oppressione politica si presenta ancora con un altro pericolo che – specie per un romanziere – è anche peggio della censura e della polizia. Voglio dire: il moralismo. L’oppressione crea un confine fin troppo chiaro tra bene e male e allo scrittore viene la tentazione di mettersi a predicare. Per il genere umano è attraente, per la letteratura mortale. Hermann Broch, il romanziere austriaco che amo di più, ha detto “L’unica moralità dello scrittore è la conoscenza”. Ha ragion d’essere solo un lavoro letterario che riveli un frammento sconosciuto di esistenza umana. Scrivere non è predicare una verità. È scoprirla.
OC Ma forse le società che subiscono oppressione offrono più occasioni allo scrittore di scoprire questo frammento, rispetto a quelle società che trascorrono le loro vite in pace?
MK Forse. Se pensate all’Europa di mezzo, che laboratorio prodigioso di storia! In un periodo di 60 anni abbiamo vissuto la caduta di un impero, la rinascita delle piccole nazioni, democrazia, fascismo locale, occupazione tedesca coi suoi massacri, invasione russa con le sue deportazioni, speranze di socialismo, terrore staliniano, emigrazione… sono sempre e ancora colpito nel constatare come si sono comportate le persone intorno a me in questa situazione. L’uomo è diventato enigmatico, sta lì come una domanda e da questo sbalordimento viene la passione di scrivere romanzi. Il mio scetticismo in relazione a certi valori che sono così inattaccabili – è radicato nella mia esperienza nell’Europa di mezzo. Per esempio, la gioventù è tratta non come una fase ma come un valore in sé. Quando spendono questa parola, i politici esibiscono un sorriso beota. Ma io, da giovane, ho vissuto il terrore, ed è stato il giovane che ha sopportato il terrore, in grandi numeri, con inesperienza, immaturità, la moralità del tutto o nulla, senso lirico. Il più scettico tra i miei romanzi è La vita è altrove. Il soggetto lì è la gioventù e la poesia, l’avventura poetica nel terrore staliniano, il sorriso della poesia, un sorriso di innocenza macchiato di sangue. La poesia è un altro di quei valori non attaccabili nella nostra società. Sono stato scioccato quando nel 1950 il grande comunista e poeta francese Paul Eluard approvava in pubblico l’impiccagione del suo amico e scrittore praghese Zavis Kalandra. Quando Brezhnev manda carrarmati a massacrare gli Afgani, è terribile ma per così dire “normale” – e prevedibile. Quando un poeta elogia un’esecuzione, è un soffio che manda all’aria tutta l’immagine che ti sei fatto del mondo.
OC Ma una vita ricca di esperienza rende i tuoi romanzi autobiografici…
MK Nessun personaggio lì è un autoritratto, nessun carattere un ritratto di persone viventi. Non mi piacciono le autobiografie camuffate, odio le indiscrezioni da scrittore: peccato capitale. Chiunque riveli qualcosa di intimo di vite altrui merita la frusta. Viviamo un’epoca dove la vita privata sta per essere tutta distrutta, la polizia la distrugge negli stati comunisti, i giornalisti la minacciano nelle libere democrazie, e poco a poco la gente sta perdendo il gusto per la sua vita privata. Il senso che questa vita privata possiede. La vita che non si può difendere dallo sguardo altrui è l’inferno. Lo conoscono quelli che hanno vissuto nello stato totalitario, ma quello è un sistema che porta fuori, come una lente caleidoscopica, le tendenze di ogni società moderna: natura devastata, declino di pensiero e arte, burocrati che imperversano e spersonalizzano, mancanza di rispetto davanti alla vita personale. Senza segreto, niente è possibile – né amore né amicizia.
[traduzione italiana di Andrea Bianchi]
L'articolo “Scrivere non è predicare una verità. È scoprirla”. Milan Kundera compie 90 anni! Lo festeggiamo con una intervista in cui parla di politica (“uno show tragico”), scrittura, Europa, ruolo del romanzo etc. proviene da Pangea.
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nubienebbia · 6 years
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Zipper e suo padre
La triade composta da Joseph Roth, Arthur Schnitzler e Robert Musil è passata alla storia per aver descritto liricamente il tramonto di uno dei più grandi imperi della Storia, l’Impero Asburgico. Un impero glorioso che si estendeva da Innsbruck a Leopoli, e che ospitava entro i suoi confini più orientali il floridissimo ebraismo dello shtetl. Il blasone della casata conteneva da secoli il motto AEIOU, ovvero Austriae Est Imperare Orbi Universo, spetta all’Austria comandare sul mondo intero. Ciò si verificò con alterne fortune fino alla fine della Grande Guerra (il cui casus belli fu come è noto l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este a Sarajevo) quando l’Impero scomparve a causa delle molte contraddizioni che lo affliggevano ormai da tempo. La leggenda vuole che il simbolo più luminoso del regno, il baffuto e canuto Francesco Giuseppe, morì di crepacuore nel 1916 perché da un giorno all’altro vennero meno valori, usi e costumi che ormai erano plurisecolari e probabilmente considerati immortali.
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Nel 1928 Joseph Roth pubblicò Zipper und sein Vater, in italiano Zipper e suo padre, sublime romanzo che racconta la disillusione e le difficoltà materiali e spirituali di una famiglia ebraica viennese all’indomani della sconfitta e della scomparsa dell’Impero. Roth è un narratore impareggiabile che riesce nelle pochissime righe dell’incipit ad incuriosirci e a creare un enorme empatia verso l’intera famiglia Zipper, vera ed impareggiabile protagonista del romanzo.
“Io non avevo un padre – cioè: non ho mai conosciuto mio padre – ma Zipper ne possedeva uno. Ciò conferiva al mio amico un particolare prestigio, quasi avesse posseduto un pappagallo o un sanbernardo. Quando Arnold diceva: «Domani vado sul Koblenz col mio papà», provavo il desiderio di avere anch’io un padre. Un padre lo si poteva prendere per mano, si poteva imitarne la firma, da lui si potevano ricevere rimproveri, punizioni, premi, percosse. A volte ero tentato di indurre mia madre a risposarsi, perché perfino un patrigno mi appariva desiderabile. Ma le circostanze non lo consentivano.”
La famiglia Zipper era composta dal capofamiglia, il vecchio Zipper, dalla moglie Fanny e dai due figli maschi: Arnold e Cäsar. Quest’ultimo inizialmente rinnegato dal padre per il suo essere uno scioperato, morirà in stato vegetativo a causa delle ferite riportate in guerra. Lo scontro epocale, il frastuono dell’artiglieria e le notti trascorse all’addiaccio in trincea avranno delle conseguenze imprevedibili anche sulla voce narrante e Arnold Zipper, i quali dopo alcune iniziali incertezze decidono di arruolarsi per difendere l’aquila bicipite nera, per difendere lo stemma Asburgico.
“Credo che la guerra ci abbia rovinati. Confessiamolo: abbiamo avuto torto a ritornare. Noi ora ne sappiamo quanto i morti, ma dobbiamo fare finta di nulla, perché, per puro caso, siamo rimasti in vita.”
Le sensazioni di inadeguatezza e di estraneità alla società causate dalla drammaticità dell’esperienza bellica sono centrali in tutto il romanzo. Arnold Zipper e il protagonista devono ritrovare il loro posto nel mondo e all’interno della società. Impresa non soltanto non facile ma titanica. Paradossalmente l’eclissarsi consapevolmente potrebbe rappresentare una soluzione a questo dilemma.
“Arnold non giocava, ma stava volentieri a guardare. Per parecchi giocatori era diventato, con il tempo, un indispensabile «angolista». In un certo senso ci si riposava dalle emozioni del gioco se alzando gli occhi dalle carte si guardava Zipper. La perenne malinconia del suo volto – della quale nessuno sapeva il motivo, tra l’altro, e che probabilmente solo io capivo, perché conoscevo casa Zipper, cioè la culla di quella malinconia -,  l’inalterabile passione con cui partecipava a quell’altalena di disdetta e di fortuna, il suo concentrato mutismo, il suo sguardo vigile che seguiva ogni gesto, ogni movimento delle mani e delle carte, dovevano avere sui giocatori lo stesso effetto rassicurante e appagante che ha, su un autore che da lettura della propria opera, un ascoltatore attento e partecipe. I giocatori si sentivano lusingati quando Zipper li guardava. Era come se tributasse loro un tacito applauso.”
Roth è riuscito a rendere immortali i dubbi e le ansie di una generazione fatalmente ritrovatasi senza una guida. Il confortante impero era scomparso in un fiat, la morte aveva falciato in battaglia migliaia e migliaia di giovani vite, non c’era più nulla in cui credere. Il tempo scorre inesorabilmente senza che gli Zipper se ne accorgano. Emblematica e degna della migliore letteratura mitteleuropea l’immagine dell’orologio che conforta i giocatori nel caffè abitualmente frequentato da Arnold Zipper.
“Per chi sedeva lì dentro il tempo si era fermato. Sopra la cassa, in verità, era appeso un orologio, ticchettava perfino, tutte le sere veniva ricaricato dal capocameriere Franz, ma non aveva lancette. Poteva esserci qualcosa di più terrificante? Quell’orologio camminava e camminava, nelle sue recondite profondità il tempo seguiva il proprio corso regolare, ma non lo si vedeva. Si sapeva solo che le ore passano, ma quante – questo non lo si sapeva. Eppure le persone sedute lì alzavano ogni volta gli occhi a quell’orologio, probabilmente si figuravano di vedere così che ora fosse. Il ticchettio che udivano li rassicurava, a quanto pareva.”
All’inizio del quarto capitolo Roth scrive: “Dove vive tanta gente, ne muore anche tanta”. Rendere immortali queste vite è il fine ultimo della storia e della letteratura. Roth è riuscito in un centinaio di pagine a farci sentire parte della famiglia Zipper. A condividere con loro gioie e dolori, tormenti e momenti felici. In cambio ha ottenuto la gloria eterna e un posto di primissimo piano tra i Giganti della letteratura europea. Grazie Joseph, ci reincontreremo nell’eternità di un caffè a bere slivoviz circondati da “angolisti”.
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....Némirovsky .....nei suoi romanzi si coglie l'influsso della letteratura russa e mitteleuropea, un ardore in parte inespresso, un tumulto che viene fuori solo a tratti, come l'acqua che si increspa e si gonfia formando onde repentine che poi si placano nello scorrere della narrazione, una capacità di tratteggiare i personaggi in modo sobrio ma nondimeno suggestivo e intenso, come le pennellate di un acquerello. Allo stesso tempo possiede l'eleganza e il temperamento tipici della grande prosa francese e i tratti caratteristici della cultura ebraica, che pervade le sue opere. " I cani e i lupi "...un capolavoro, senza ombra di dubbio, quasi non ti accorgi, durante la lettura, di venire catturato dai personaggi più che dalla storia di cui sono protagonisti. Il rapporto tra tre ragazzini ebrei come metafora della condizione ebraica, costellata di ricchi banchieri ed intriganti avventurieri, tutti tesi verso la conquista di quel successo che sembra loro precluso dalla vita. Nel mezzo, differenze di classe, amori predestinati ed amori impossibili, ed una crescita svincolata dall'affetto genitoriale.. Irène Némirovsky in questo romanzo riesce a delineare con naturalezza situazioni e sentimenti di una intensità unica.... #libridisecondamano #ravenna #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #irenenemirovsky (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CDVZNP4K-Ma/?igshid=b2qmx49o1fj9
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giannalaguida · 4 years
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Questa opera di Fortunato Depero è passata da Palazzo Strozzi a Firenze, era esposta alla mostra su Natalia Goncharova. Torna la serie légami e legàmi. Depero è un artista eclettico e adatto alle persone curiose. Si è espresso in tanti ambiti nel momento artistico forse più giusto, e lo ha fatto in maniera eccellente. Questo è il ritratto di Marinetti, o uomo con i baffi, oppure Architettura sintetica di un uomo. Olio su tela, realizzato tra il 1916-1917, lo trovate al Mart di Rovereto (TN). Il ritratto mi colpisce molto per la sua significativa inclinazione verso la sintesi delle forme e i colori così accesi da condurre lo spettatore in maniera naturale verso il design e le campagne pubblicitarie. Ha inventato la bottiglietta dell’aperitivo Campari Soda, ancora in circolazione e che fa sempre la sua figura non ostante i suoi cento anni. È lui l’ideatore e il designer di campagne pubblicitarie di livello eccelso come quella del Campari, del liquore Strega e ancora molti altri articoli. Artista estremamente interessante tra futurismo, cultura mitteleuropea e gran voglia di divertirsi e trarre gioia dalle sue creazioni. Nella sua arte oltre al design entrano letteratura, teatro nell’accezione di scenografia e costumi, arte tessile, copertine di giornali di moda, ecc. Tanti artisti suoi contemporanei avranno un percorso comunque molto vicino al suo, segno di occhi aperti sul mondo. Si parla di artisti che ad un certo punto si trovano a dovere passare la devastazione e la disperazione della Prima guerra mondiale. Nonostante il coinvolgimento di Depero, anche fisico, in questo avvenimento, mi colpisce il fatto che non perda mai il suo mondo fantastico e i suoi colori, rimane un grande gioco e tutto il resto: fuori. Ho seguito la richiesta di Sole e Viola. Questo è ciò che so e mi piace di Fortunato Depero, invito chiunque altro a commentare liberamente e aggiungere il proprio contributo. #firenze #palazzostrozzi #labellezzaècontagiosa #museichiusi #culturaaperta #iorestoacasa #andràtuttobene #guidaturistica #guudaturisticaabilitata #fortunatodepero #martrovereto #artemoderna #rovereto #nataliagoncharova #arte #design #colori #forme #palazzostrozzi #visititaly (presso Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto) https://www.instagram.com/p/B-9q5ltjbNB/?igshid=1e45a8co2p8ki
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silvestroram · 7 years
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Quello che disse Austerlitz
Quello che disse Austerlitz
La copertina di Austerlitz
Austerlitz è un libro di una bellezza articolata e complessa, con una articolazione e una complessità tali da comprometterne in parte la resa letteraria. Un capolavoro della letteratura del ‘900? No, un ottimo libro, un libro di valore universale della grande tradizione mitteleuropea, ma i capolavori sono altri.
Di Austerlitz (opera di W.G. Sebald, edita in italia da Ad…
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gregor-samsung · 2 years
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“ «Ci si sveglia e ci si ritrova in mezzo alla perfidia e alla bassezza e all’ottusità e alla debolezza di carattere e si comincia a pensare e non si pensa se non in termini di perfidia, bassezza, ottusità, debolezza di carattere. Se non in termini di patologia di morte e di dilettantismo esistenziale. Si ascolta e si vede e si pensa e si dimentica quello che si ascolta, si vede e si pensa, e si invecchia, ognuno nella sua connaturata maniera, nella solitudine, nell’inettitudine, nell’insolenza. Dire che la vita è un dialogo è una menzogna come dire che la vita è realtà. Anche se non è un prodotto della fantasia, in fondo non è altro che una disgrazia in quanto infamia, un periodo di orrore il quale, lungo o breve che sia, è fatto solo di fastidi e malinconia... solo cause ed effetti di morte moltiplicati per miliardi... Abbiamo a che fare in questo caso con un’enorme intolleranza della creazione che ci deprime e amareggia sempre più e alla fine ci uccide. Crediamo di aver vissuto e in realtà siamo morti a poco a poco. Crediamo che tutto sia stato un insegnamento e invece non è stato che una scemenza. Noi osserviamo e riflettiamo e non possiamo non vedere come sfugga tutto quello che osserviamo e su cui riflettiamo, come ci sfugga il mondo che ci siamo proposti di dominare o per lo meno di trasformare, come ci sfuggano il passato e il futuro, come noi sfuggiamo a noi stessi e come con l’andar del tempo tutto ci diventa impossibile. Noi tutti passiamo l’esistenza in un’atmosfera di catastrofe. La nostra indole tende all’anarchia. Tutto in noi desta continuamente sospetto. Dove c’è l’imbecillità, dove non c’è, è tutto intollerabile. Il mondo, da qualsiasi parte lo guardiamo, in fin dei conti è fatto di cose intollerabili. Sempre più intollerabile è per noi il mondo. Se sopportiamo l’intollerabile è per l’attitudine di ciascuno di noi a tormentarsi e a soffrire per tutta la vita, sono un paio di elementi ironici dentro di noi, un idiotismo irrazionale, tutto il resto è calunnia». “
Thomas Bernhard, Ungenach. Una liquidazione, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 766), 2021¹; pp. 97-98.
[ Edizione originale: Ungenach. Erzählung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968 ]
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gregor-samsung · 2 years
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“ Quante volte, penso, sono rimasto seduto per ore in questa stanza, immobile, inerte... seduto effettivamente per ore al mio scrittoio, che in verità è lo scrittoio di mio nonno (da parte materna), ore e ore per questo motivo... senza avere la forza di alzarmi, penso, di andarmene via... così come adesso non riesco ad andare via da Ungenach... seduto davanti al mio scrittoio, che il nonno chiamava pensatoio, senza riuscire a leggere qualcosa o scrivere qualcosa, in uno stato di catastrofica immobilità e fiacchezza... schiacciato dall’opera omnia di Kant... Quante volte mi sono seduto a questo scrittoio con l’intenzione di elaborare dei pensieri che mi occupassero la mente, vale a dire che mi mortificassero, incapace anche solo del minimo movimento mentale... durante le mie passeggiate elaboravo dei pensieri che poi, quando mi sedevo allo scrittoio, svanivano... quando, dopo una lunga passeggiata, che spesso mi portava fin nella regione dello Hausruck, mi avvicinavo di nuovo a Ungenach con un pensiero, e poi mentre attraversavo il cortile, mentre chiudevo i portoni dietro di me, mentre aprivo le imposte nella mia stanza eccetera, quel pensiero all’improvviso se ne era andato via... certi giorni andavo avanti rapidamente, certi altri non constatavo niente. Per settimane intere non constatavo niente. Vivere allo scopo di lavarsi, andare a trovare qualcuno, mangiare, ricevere qualcuno, parlare, e parlare ogni volta di situazioni penose o alludendo a situazioni penose... parlare una volta di cause e una volta di effetti e sempre unicamente a scapito del proprio cervello... Caro Stirner, come Lei sa, il latte che beviamo a Ungenach lo facciamo venire tutti i giorni su dalla città, anche se qui abbiamo un’enorme produzione di latte, perché così vuole la mia matrigna, la carne che mangiamo la facciamo venire su dalla città... dopo essere rimasto parecchie ore chiuso là dentro per studiare, non oso più uscire dalla mia stanza, perché la mia permanenza in quella stanza non ha prodotto alcun risultato... Si possono senz’altro passare giornate intere, settimane intere in compagnia di libri, atlanti, mappe dettagliate, stare accovacciati sul pavimento a filosofeggiare sopra oceani e città mai viste, starsene da soli nella propria stanza in compagnia di scrittori odiosi, ma poi a un certo punto bisogna di nuovo uscire e badare a non diventare matti. “
Thomas Bernhard, Ungenach. Una liquidazione, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 766), 2021¹; pp. 58-60.
[ Edizione originale: Ungenach. Erzählung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968 ]
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gregor-samsung · 3 years
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“  «Lei è rimasto stupito di quanto grande sia l’intera proprietà, eppure Ungenach non è nemmeno la metà di quello che era un tempo... e che Lei non voglia farsi schiacciare da un’immensità del genere... e che trattenga per sé soltanto trentamila dollari con cui pensa di avere di che vivere... perché crede che trentamila dollari le bastino per il futuro... del resto io non so che cosa sia l’America per Lei, da parte mia non sono mai stato in America... e certamente sono anche un uomo che non potrebbe vivere in America... che non potrebbe vivere neanche da qualche altra parte in Europa, capisce, uno che non può esistere che qui, in questo paesaggio che è il suo... e come è strano che voi due, il suo signor fratellastro Karl e Lei, abbiate lasciato questo Paese e ve ne siate andati, il suo signor fratellastro Karl in Africa e Lei in America... perché qui non vi è stata data la possibilità di evolvervi» disse Moro. «Ecco una cosa che non capisco,» disse «che questo Paese si lasci scappare tutte le persone che valgono qualcosa, le butti fuori, addirittura le spinga ad andarsene in altri continenti... non lo capisco... certo, naturalmente la situazione in cui versa questo Paese è la più spaventosa che si possa immaginare, la macchina del nostro Stato è manovrata da idioti inimmaginabili... molte cose, anzi, tutto è ridicolo in questo Paese, va riconosciuto... naturalmente patetico, una commedia... uno qui sa perfettamente che muore, che si spegne, che si è guastato e deve morire... e a me vengono i brividi quando ci penso, caro Zoiss... ma tutto è derelitto e sterile... quando, in balia di questi terribili bilanci, non si riesce a dormire, non si riesce a prender sonno e si dice a sé stessi che la patria non è altro che una volgare, brutale idiozia... per impudenza... i bambini» disse guardando giù nella via «giocano e vivono completamente ai margini degli eventi, mentre gli adulti abbrutiscono, si spengono, non ci sono più... Chi sul letto di morte riesce a scrivere una commedia o una vera pièce comica, chi ci riesce ha fatto centro. Dentro ai manicomi c’è la pazzia universalmente riconosciuta, ha detto il suo signor tutore, fuori dei manicomi c’è la pazzia illegale... ma non vi è altro che pazzia». “
Thomas Bernhard, Ungenach. Una liquidazione, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 766), 2021¹; pp. 47-48.
[ Edizione originale: Ungenach. Erzählung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968 ]
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gregor-samsung · 6 years
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Anton Wanzl si presentò vestito in modo semplice ma elegante, i suoi insipidi, sbiaditi capelli avevano quel giorno una scriminatura più che mai accurata, il suo viso bianco e freddo come il marmo tradiva nondimeno una lieve eccitazione Era seduto nello Stadtpark accanto a Mizzi Schinagl e si lambiccava il cervello a pensare cosa mai dovesse dire. In una situazione così scabrosa non si era ancora mai ritrovato. Mizzi però sapeva come discorrere. Raccontò di questo e di quello, si fece sera, il sambuco odorava, il merlo cantava, maggio ridacchiava dai cespugli, allora Mizzi si lasciò andare e disse quasi di punto in bianco: «Senti Anton, io ti amo». Il signor Anton Wanzl si spaventò un po', Mizzi Schinagl anche di più, volle nascondere da qualche parte il suo visetto in fiamme e non seppe trovare nascondiglio migliore dei risvolti della giacca del signor Wanzl. Al signor Wanzl questo non era ancora mai successo, lo sparato inamidato della sua camicia crepitò percettibilmente, ma egli riprese subito il suo sangue freddo - una volta o l'altra doveva pur capitare. Quando si fu calmato, gli venne in mente un'idea eccellente. «Ich bin din, du bist min» citò a mezza voce. E questo gli servì da spunto per una piccola conferenza sul periodo dei Minnesinger, parlò ispirato di Walther von der Vogelweide rammentò anche la prima e la seconda mutazione consonantica, da qui passò alla bellezza della nostra lingua materna e, senza una giustificata transizione, alla fedeltà delle donne tedesche. Mizzi ascoltava a orecchie tese, non capiva una parola ma tale era appunto l'uomo colto, così appunto doveva parlare un uomo come il signor Wanzl. La sua conferenza le pareva non meno bella del fischio del merlo e del gorgheggio dell'usignolo. Ma l'amore puro e semplice, e la primavera insieme, fecero sì che lei non reggesse un minuto di più e interrompesse la meravigliosa conferenza di Anton con un bacio decisamente gradevole sulle labbra sottili e pallide di Wanzl, bacio che questi trovò non meno gradevole ricambiare. Subito si precipitò su di lui una pioggia di baci da cui il signor Wanzl non poteva né voleva difendersi. Andarono finalmente verso casa in silenzio, Mizzi aveva troppe cose sul cuore, e Anton, nonostante si sforzasse di riflettere, non riusciva a trovare una parola. Fu contento quando, dopo una dozzina di ardenti baci e abbracci, Mizzi lo ebbe rimesso in libertà. Da quel giorno memorabile si amarono. Il signor Anton Wanzl si era adattato presto alle circostanze. I giorni feriali studiava e la domenica amava.
L'allievo modello [1ª pubblicazione: Der Vorzugsschüler, Oesterreiches Illustrierte Zeitung (rivista), Vienna, 1916] in: 
Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore e altri racconti (traduzione di Chiara Colli Staude), Adelphi (Piccola Biblioteca), 2012⁴³.
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gregor-samsung · 6 years
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Si rese conto che di lì a un anno, di lì a sei mesi, sarebbe diventato inevitabilmente lo zimbello della cittadina - e che cosa gliene importava in realtà? Non Progrody ma l'oceano era la sua patria. Così un giorno prese la decisione fatale della sua vita. Prima però si mise in viaggio per Suski e, guarda un po': nel negozio di Jeno Lakatos, di Budapest vide tutti i suoi vecchi clienti che ascoltavano pieni di rispetto le canzoni assordanti del fonografo e comperavano coralli di celluloide a 50 copechi il filo. «Allora, cosa le ho detto un anno fa?» gridò Lakatos a Nissen Piczenik. «Vuole ancora dieci pud, venti, trenta?». Nissen Piczenik disse: «Io non voglio più coralli falsi. Per quanto mi riguarda io tratto solo quelli veri». E tornò a casa, a Progrody, e andò di nascosto e in tutta segretezza da Benjamin Brociner, che aveva un agenzia di viaggi e vendeva biglietti di nave per emigranti. Erano soprattutto disertori ed ebrei molto poveri, che erano costretti a emigrare in Canada e in America e davano così da vivere a Brociner. Egli teneva a Progrody la rappresentanza di una società di navigazione amburghese. «Io voglio andare in Canada!» disse il mercante di coralli Nissen Piczenik. «E anzi il più presto possibile». «La prima nave si chiama Fenice e parte da Amburgo fra quindici giorni. Per allora le procureremo le carte» disse Brociner. «Benissimo!» rispose Piczenik. «Non ne parli con nessuno». E andò a casa e ripose tutti i coralli, quelli veri, nel suo baule movibile. I coralli di celluloide, invece, li mise sul supporto di rame del samovar, vi diede fuoco e stette a guardare mentre bruciavano, azzurrognoli e puzzolenti. Ci volle un bel po' di tempo, erano più di quindici pud di coralli falsi. Dopo restò un grosso mucchio di cenere nerastra e attorta. E intorno alla lampada a petrolio, in mezzo alla stanza, serpeggiava e si torceva il fumo grigio-azzurro della celluloide. Questo fu l'addio di Nissen Piczenik alla sua patria. Il ventuno aprile s'imbarcò ad Amburgo sul piroscafo Fenice come passeggero del ponte di corridoio. La nave era in viaggio da quattro giorni quando avvenne la catastrofe: forse qualcuno se ne ricorderà ancora. Più di duecento passeggeri andarono a fondo con la Fenice. Naturalmente, annegarono. Quanto però a Nissen Piczenik, che quella volta andò a fondo anche lui, non si può dire che sia semplicemente annegato come gli altri. Piuttosto lo si può raccontare con tranquilla coscienza - era tornato a casa dai suoi coralli, sul fondo dell'oceano, dove si torce il potente Leviatano. E se dobbiamo credere al resoconto di un tale che in quell'occasione, per miracolo - come si usa dire - sfuggì alla morte, dobbiamo riferire che Nissen Piczenik, molto prima che le scialuppe di salvataggio fossero colme, si buttò da bordo in acqua, per raggiungere i suoi coralli, i suoi coralli veri. Per quanto mi riguarda, sono propenso a crederci. Perché ho conosciuto Nissen Piczenik e garantisco che la sua famiglia erano i coralli e che il fondo dell'oceano era la sua unica patria. Possa egli là riposare in pace accanto al Leviatano fino all'arrivo del Messia.
Il mercante di coralli (Der Korallenhaendler, 1934), in: 
Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore e altri racconti (traduzione di Chiara Colli Staude), Adelphi (Piccola Biblioteca), 2012⁴³.
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...un affresco sociale e culturale delle radici della cultura balcanica e mitteleuropea....Una serie di viaggi,lungo il corso del Danubio,diventano lo spunto per raccontarne la storia, la letteratura, la filosofia, l'arte, la popolazione e il fascino, soprattutto. Un diario di viaggio che sono in realtà più viaggi, fatti in tempi e occasioni diverse, ma che nel libro diventano appunto uno solo. Scritto prima della caduta del muro e attraversando luoghi che dopo la caduta sono cambiati anche tragicamente, emerge un tema caro a Magris, quello del confine e del mescolamento di popoli, lingue ed abitudini: la speranza di una convivenza pacifica che a volte miracolasamente accade. ....un libro incantevole....un'alluvione violentissima e piena di poesia e mi lascia detriti che amerò a lungo,molto a lungo.... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #iorestoacasaaleggere #claudiomagris (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/B_gxcxGqsVd/?igshid=z318ga9pai18
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pangeanews · 5 years
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“Studio gli atti estremi per cercare di conoscermi”: dialogo con Andrea Tarabbia
In un altro contesto, tentando una lettura articolata del suo libro, livido e lirico, ho detto che è un “addestratore di Minotauri”. Poi ho scritto quello che penso: che Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019; eppure è brutta la copertina ed è spudorata la ‘quarta’, con la lista buona di quelli che hanno scritto di lui, da D’Avenia in giù: l’autore ha una spada nella spina dorsale, si regge benissimo da sé, senza stampelle giornalistiche) è un romanzo, finalmente, fieramente, con un Risiko narrativo riuscito, che a me ricorda Mario Pomilio – una lunga lettera in cui Igor Stravinskij ricalca, per il professor Glenn E. Watkins, una ignota e truce e barocca e stralunata e stravolta Cronaca della vita di Carlo Gesualdo Principe di Venosa – e una carica etica (tema di fondo: dal ‘mostro’ nasce il bello, dal gorgo del male scaturisce la forma perfetta) che inquieta, un tormento. Tarabbia, insomma, fa così: addomestica il Minotauro, stende i panni fra le sue corna, ne scandaglia la claustrale bellezza. Poi te lo scaglia addosso, affari tuoi. La storia di Gesualdo da Venosa, di per sé affascinante – fu straordinario madrigalista, un avanguardista della musica, nel 1590 uccise la moglie, la bellissima cugina Maria d’Avalos, sorpresa in flagrante tradimento con Fabrizio Carafa, accoppato pure lui, poi s’accoppia, misogino, demonico, a Eleonora d’Este – rinnovata da Stravinskij nel Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum (1960) e resa pop dalla coppia Battiato-Sgalambro nell’album L’ombrello e la macchina da cucire (1995), ha oscurità nervose da pittura della Controriforma. “Parla di musica, di bene, di male, di padri, di figli, di morte, di Dio, del diavolo, di malinconia, di omicidi ahimè dovuti, di cognomi, di Novecento, di demonietti, di carte (forse) ritrovate, di donne bellissime e forse fatali, di nani, di poeti folli e di streghe, infine di genio e talento. Insomma le solite cose”, scrive Tarabbia, abile a sfilettare le tenebre (Il demone a Beslan, 2011; Il giardino delle mosche, 2015) e soprattutto nel domare il mostro romanzesco senza che dilaghi nel grottesco, nell’horror. Di fatto, Madrigale senza suono è una decisa riflessione sull’atto spietato, spenta l’assoluzione, dell’arte. Pensai naturale, dopo aver scritto del libro, confrontarmi con l’autore. (d.b.)
Vorrei entrare nella tua testa romanzesca. Come è nato Madrigale senza suono? Intendo, la struttura formale, il gioco di far parlare Stravinskij, la voglia di sondare Gesualdo da Venosa.
Gesualdo da Venosa è un personaggio assolutamente fuori dall’ordinario, di cui in Italia sappiamo molto poco: bulimico, scontroso, solitario, geniale, devoto e demoniaco insieme. Ho incrociato la storia della sua vita e la sua opera circa cinque anni fa e ho subito capito che avrebbe potuto diventare un personaggio “mio”: nella sua parabola si sintetizzavano tutti i temi che io da sempre tratto nei miei libri – la colpa, il dolore, ma anche la creazione, l’idea della bellezza. Così ho cominciato a studiarlo, sono andato una prima volta a casa sua, a Gesualdo, in Irpinia, ho parlato di lui con alcuni suoi esegeti e con certi musicisti che si occupano di musica rinascimentale e barocca. Volevo conoscerlo, guardarlo da vicino per capire se davvero avrei potuto lavorare su di lui. Ora, quando si studia Gesualdo è inevitabile incappare in Stravinskij. È Stravinskij che l’ha riscoperto, a metà Novecento, è lui che lo ha rimusicato e che ne ha rivelato al mondo il genio. Ma non solo: ha fatto capire che esiste un legame stretto tra la musica di Gesualdo e un certo Novecento – ha detto che Stravinskij è “figlio” di Gesualdo. Questa cosa ha fatto scattare la scintilla definitiva: fino a quel momento, avevo in mano materiali per fare un romanzo biografico su un musicista di genio, uxoricida e stravagante; ora avevo i materiali per fare un romanzo che, oltre che raccontare la vita del principe, poteva parlare del Novecento, del suo rapporto con la modernità, e di concetti che mi sono vicini come il rapporto con il passato, la rielaborazione della tradizione e così via. All’inizio avevo una storia, straordinaria ma pur sempre solo una storia; adesso avevo una storia e un grande tema, una sfida possibile. Così ho cominciato a immaginarla e ho capito che la forma del libro, in qualche modo, doveva rispecchiare alcuni concetti fondamentali: per esempio, ci dovevano essere molte voci, molti “io narranti”, perché i madrigali gesualdiani hanno cinque, a volte sei o sette voci; ma soprattutto, bisognava fare con la letteratura del passato ciò che Stravinskij aveva fatto con la musica di Gesualdo rimusicandola: vale a dire prendere temi e modi della tradizione e giocarci, rimetterli in modo, investigarli e renderli contemporanei. Così, Madrigale senza suono fa i conti con la tradizione cominciando con il ritrovamento di un manoscritto, e poi riproponendo la forma epistolare e diaristica. Ma il romanzo non prende di peso questi cliché letterari: li mette in dubbio, ne fa la parodia (in senso etimologico), li immerge – o almeno prova a farlo – in quello che qualcuno, una volta, ha chiamato “il vapore della modernità”.
Che rapporto c’è (estrapolo concetti che mi abbagliano dal tuo romanzo) tra crudeltà e purezza, tra male e arte, tra perdizione e dedizione, tra etica ed estetica, insomma? Lo chiedo a te attraversando lo specchio del romanzo.
Io me lo chiedo attraverso Stravinskij. A un certo punto, lavorando su Gesualdo e leggendo la cronaca apocrifa della sua vita, Stravinskij comincia ad avere dei dubbi: come è possibile, si chiede, che io, uomo razionale, regolare, addirittura freddo quando compone, mi innamori di un autodidatta tutto estro, tutto istinto? E soprattutto: come è possibile che io mi scopra figlio, artisticamente parlando, di un essere ributtante, dionisiaco e omicida? Insomma: Stravinskij trova la bellezza nel suo contrario e non sa cosa pensare: ha più di 70 anni, è il musicista più importante del Novecento e lo sa, eppure segue la storia gotica di un matto vissuto quasi 400 anni prima di lui e si riconosce in lui. Questo è un tema forte, per me, è una cosa che sento molto, che mi spinge a visitare le case degli scrittori, a guardare fuori dalle loro finestre, a immaginarmi la loro vita quotidiana. Thomas Mann è più Thomas Mann se lo guardi da dentro la stanza dove si lavava la faccia. Tutto questo per dire che c’è un rapporto diretto tra la grandezza e la vita spicciola, tra la bellezza e l’orrore. Io cerco di mettere in scena questa relazione nei miei libri, ma mi è molto difficile spiegarla razionalmente: forse il male e il bello sono la fronte e la schiena dello stesso essere, e noi se vogliamo descriverlo dobbiamo guardarlo da entrambi i lati. Nei miei libri fin qui mi sono occupato di figure borderline, capaci di grandezze e di infinite bassezze – come l’uomo del sottosuolo – perché mi pare che, se guardiamo alle manifestazioni dell’umano quando raggiunge o oltrepassa i suoi limiti (etici, morali, fisici, psicologici ecc.), quello che vediamo è una versione tirata allo spasimo di quello che siamo.
Il ‘mostro’ che valore ha nei tuoi libri? Anche lo scrittore, forse, quando mostra il mostruoso è egli stesso mostro.
Credo di aver in parte risposto nella domanda precedente. Non mi interessa il mostro in sé, ma il mostro che, nella sua mostruosità e in virtù di essa, dice qualcosa di me. Credo di poter ragionevolmente affermare che io, nella mia vita, non ucciderò mai nessuno: eppure so di possedere, in dosi ragionevoli, quell’istinto di sopraffazione, la rabbia e la capacità di distruggere che, drogati, possono portare a compiere atti estremi. Ecco, studio gli atti estremi per cercare di conoscermi.
Cosa hai letto per arrivare al Madrigale? Intendo, come prepari i tuoi libri, con quale impeto di studio? (In calce: dimmi che letture ti hanno formato, per così dire).
Molti libri di musicologia, e tutto quello che ho trovato su Gesualdo; molti libri di e su Stravinskij; libri sull’alchimia, sulla stregoneria, sulla licantropia, manuali di storia moderna e di storia del Meridione, libri di pittura e architettura; guide turistiche dell’Irpinia; libri su Ferrara e su Venezia; programmi di sala storici della Fenice, del Metropolitan e della Royal Albert Hall; carteggi vari tra Stravinskij e chiunque; ho riletto Giordano Bruno, Cardano, Cusano; vecchi romanzi su Gesualdo scomparsi perfino dai remainders; e poi ci sono i libri che ho tenuto sul tavolo mentre scrivevo: Dostoevskij (lui c’è sempre), Bulgakov, Sebald, Pomilio (Madrigale è debitore del Quinto evangelio, che viene citato qua e là nelle parti stravinskiane), Malaparte, Piovene, Volponi, Parise – tutta quella generazione di giganti che ha scritto tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del secolo scorso e che ha creato quell’impasto di lingua in cui mi riconosco. Credo che l’elenco potrebbe continuare perché sai: da quando ho cominciato a pensare al libro a quando l’ho davvero finito sono trascorsi quattro anni e mezzo e tutto quello che ho letto in quest’arco di tempo l’ho letto con la consapevolezza che, forse, mi avrebbe potuto aiutare per una data scena, o per rendere più credibile un personaggio. Per le letture che mi hanno formato: sono figlio dei russi, di quella teoria di giganti che va da Gogol’ a Bulgakov (Dostoevskij più di Tolstoj, Andreev più di Pasternak, Čechov più di Turgenev); poi la grande letteratura mitteleuropea: i galiziani, i polacchi (una scoperta recente e straordinaria è Andrzej Szczypiorski), i tedeschi del secondo dopoguerra, degli italiani ti ho detto sopra.
Ti interessa la narrativa italiana contemporanea? Cosa, in particolare?
Certo, anche se ultimamente non ne ho letta molta. Mi interessa perché è l’ambiente in cui vivo e dove trovo alcuni maestri a cui posso telefonare (è un vantaggio, ma non sempre). Ma credo che tu voglia qualche nome. Eccolo: Filippo Tuena, per me un punto d’arrivo, Antonio Moresco – ho fatto su di lui la mia tesi di dottorato –, Laura Pariani (Se Dio non ama i bambini non è il romanzo italiano più bello degli anni zero è perché c’è Ultimo parallelo di Tuena). Ho letto recentemente Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio – che per certi versi è un libro parente di Madrigale e che fa un’operazione su cui chi, come me, lavora con il linguaggio dovrà prima o poi fare i conti.
Ho letto, in alcune tue riflessioni, che ritieni Madrigale la fine di un ciclo, la chiusura di un cerchio romanzesco. Questo significa che stai lavorando a qualcosa o che lasci lavorare il vuoto?
Significa che ho la sensazione di aver scritto tutto quello che potevo su certi temi e certe questioni letterarie. Ma ripeto, è una sensazione. Il prossimo libro – di qualunque cosa tratterà – dovrà per forza di cose discostarsi un po’ da quello che ho fatto finora, altrimenti non avrebbe senso: potrei riproporre temi e modi di Madrigale solo se avessi l’assoluta certezza di fare un lavoro migliore di questo e avessi da dire qualcosa di nuovo sull’argomento. Ma questa certezza non ce l’ho.
Esiste un libro che vorresti avere scritto? Preciso: l’invidia è anche uno dei temi sottili del tuo romanzo, che mi pare, in fondo, puoi contestarmi, una riflessione sul gesto artistico.
Non sono un invidioso. L’invidia è un sentimento limitato, perché si invidiano solo i vivi, mentre la letteratura ha duemila anni di storia da cui si può attingere. Voglio dire: non ha senso invidiare Senofonte, eppure lui ha scritto quella cosa pazzesca che è l’Anabasi. Provo fastidio quando vengono esaltati i mediocri (succede spessissimo): ma mi passa subito. In ogni caso, ci sono libri che vorrei aver scritto ma che sono contento di aver letto, perché mi hanno insegnato molte cose. Ci sono senza dubbio vite che vorrei aver vissuto, e sono sicuro che da quelle vite diverse dalla mia avrei tratto linfa per scrivere. Ma forse no.
Perché si scrive? Per indagare le oscurità, per snidare se stessi, per toccare quel grammo di candore, perché? 
È una domanda alla quale non so rispondere. Se avessi una risposta, non scriverei libri pieni di domande. In ogni caso, sono convinto di una cosa: benché mi capiti di sentire l’impulso irrefrenabile di prendere in mano la penna, scrivere non è la cosa fondamentale. La cosa fondamentale è leggere: posso stare anche due anni senza scrivere, ma non riesco a stare due giorni senza leggere. Divento nervoso, irascibile, e mi sembra di sprecare il mio tempo. Quello che mi tiene vivo sono i libri degli altri.
*In copertina, Andrea Tarabbia photo Fondazione Premio Campiello
L'articolo “Studio gli atti estremi per cercare di conoscermi”: dialogo con Andrea Tarabbia proviene da Pangea.
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