Tumgik
#Dominio Occidentale
megachirottera · 2 years
Text
I vaccini sono stati ripetutamente sviluppati per campagne di sterilizzazione forzata
Un nuovo documentario racconta una parte importante di questa storia Source: 2022, Jun 16; by A Midwestern Doctor on The Forgotten Side of Medicine (more…) “”
Tumblr media
View On WordPress
3 notes · View notes
falcemartello · 2 months
Text
Tumblr media
Cosa si può imparare dalla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi del 26 luglio 2024?
Sono sempre stato riluttante a criticare l'Occidente "da fuori".
Credevo, e lo credo, che la maggioranza delle critiche all'Occidente, o all'Europa, provengano da criteri o valori di natura occidentale.
L'Occidente è cioè per sua natura autocritica, e messa in discussione.
Tuttavia, credo che negli ultimi dieci anni qualcosa in più sia accaduto.
Vedo la dissoluzione di una intera civiltà come neve al sole.
Vedo il dominio del brutto, dell'osceno, del cattivo gusto.
Vedo la tracotanza estetica del male.
E la vedo esprimersi senza pudore, senza vergogna, a cielo aperto, dinanzi a capi di stato - che non dicono nulla - a vescovi - che in pochi dicono qualcosa - a giornalisti - che dicono tutto per il potere.
In confronto alla presentazione di ieri, Hunger games sembra un'esibizione di misura e di umanità.
Una società che profana il bello, che educa all'osceno, non può che essere una civiltà di guerra, di nichilismo, di ingiustizia.
Una civiltà di odio.
Quanto odio c'era ieri sera?
Quanto odio si voleva diffondere ai miliardi di persone che guardavano quella "cerimonia".
Ci sarebbero molte domande da fare.
Se una civiltà crolla in così poco tempo, significa che aveva dei problemi strutturali.
E poi ci sarebbe da interrogare la storia e il destino della Francia.
Sul piano culturale, il loro continuo voler scandalizzare, essere originali, spararla grossa, decostruire e poi post-decostruire, ha fatto danni immensi, non tanto alla cultura tradizionalista ma al filone critico.
Lo ha sottratto dalla realtà.
Un continuo "Épater la bourgeoisie", che oramai non scandalizza se non gli ultimi, i poveri, i bambini.
Cosa è che oggi realmente scandalizza? Lucio Dalla scriveva che oggi è difficile essere normali.
A me non piace il termine normale. Diciamo che oggi scandalizza la potente realtà dell'umano, il suo mistero abissale e semplice, l'umiltà di un fiore, l'esistenza di una donna e di un uomo, la verità ferita della nostra anima.
Insomma, scandalizza la bellezza, che non è che lo sprigionarsi della verità. Ecco, questo realmente scandalizza il potere, non quella buffonata oscena.
Quella di ieri è una cerimonia reazionaria, un rito di difesa dello status quo.
L'anticonformismo delle oligarchie, questo è stato. Il vero anticonformismo siamo noi.
Ecco, verrà un tempo, in cui si stabiliranno nuovi criteri di giudizio, severissimi, in cui ci sarà un esercito della bellezza, totalmente non violento, ma che manifesterà civilmente contro episodi del genere.
Perché non c'è nulla di più antidemocratico che la bruttezza diffusa come strumento pedagogico. Non c'è niente di più antisociale, e antirepubblicano di quella "cosa" che abbiamo visto ieri.
Non è una questione di estetismo ma di difesa dei diritti dell'uomo e del cittadino.
Ma in quella patria se ne sono dimenticati, sommersi da un cumulo di pseudoprogressismo e laicismo instupidito.
Gabriele Guzzi
146 notes · View notes
ambrenoir · 8 days
Text
"Un tempo non era permesso a nessuno di pensare liberamente. Ora sarebbe permesso, ma nessuno ne è più capace. Ora la gente vuole pensare ciò che si suppone debba pensare. E questo lo considera libertà"
Oswald Spengler, “Il tramonto dell'Occidente”
‎ "Il tramonto dell'Occidente" di Oswald Spengler è un'opera monumentale che si pone come uno dei pilastri della filosofia della storia del XX secolo. Pubblicato in due volumi tra il 1918 e il 1923, il saggio esplora la ciclicità delle civiltà umane attraverso una "morfologia della storia universale".
Spengler propone una visione pessimistica del futuro dell'Occidente, paragonando le civiltà a organismi viventi che attraversano cicli di nascita, crescita, declino e morte. Secondo lui, ogni civiltà possiede un'anima, un ethos che ne guida lo sviluppo e il destino. La civiltà occidentale, caratterizzata da un impulso "faustiano" verso l'espansione e la conquista, si troverebbe, secondo Spengler, nella fase di decadenza, o "Zivilisation", dove i valori culturali e spirituali vengono sostituiti dal dominio del denaro e della tecnica.
La profondità di Spengler sta nella sua capacità di intrecciare filosofia, storia, arte e scienza per creare un quadro complessivo delle dinamiche storiche. Egli non si limita a descrivere il declino dell'Occidente, ma fornisce anche una critica acuta della modernità, evidenziando come la perdita di valori autentici porti a una civiltà vuota e senza scopo.
L'opera di Spengler è stata oggetto di molteplici interpretazioni e controversie, soprattutto per il suo fatalismo e il suo determinismo storico. Tuttavia, non si può negare l'impatto che "Il tramonto dell'Occidente" ha avuto sul pensiero contemporaneo, stimolando riflessioni sul significato della storia e sul destino delle società umane.
La sua opera rimane un testo fondamentale per chiunque sia interessato alla filosofia della storia e alle grandi domande sul futuro dell'umanità. La sua lettura richiede un impegno non indifferente, ma offre in cambio una prospettiva unica e provocatoria sulla storia mondiale e sul nostro posto in essa.
Oswald Spengler è stato un filosofo tedesco nato il 29 maggio 1880 a Blankenburg, Germania. È noto principalmente per il suo lavoro "Der Untergang des Abendlandes" (Il tramonto dell'Occidente), pubblicato tra il 1918 e il 1922, che è considerato un importante contributo alla teoria sociale. Dopo aver conseguito il dottorato all'Università di Halle nel 1904, Spengler lavorò come insegnante fino al 1911, per poi dedicarsi alla scrittura della sua opera principale. Nonostante il successo iniziale, visse in isolamento dopo l'ascesa al potere di Hitler nel 1933 e morì a Monaco il 8 maggio 1936.
Tumblr media
21 notes · View notes
jgmail · 1 year
Text
La civilización judeocristiana no existe
Tumblr media
Por Alexander Dugin
Traducción de Juan Gabriel Caro Rivera
La escalada de la guerra palestino-israelí sin duda esta consolidando la independencia del mundo islámico. Mientras tanto, los conservadores occidentales han vuelto a hablar de la defensa de la “civilización judeocristiana en contra de los musulmanes”, siendo la ideología islámica radical de Hamás la excusa perfecta para ello. Sin embargo, una civilización que hace tiempo dejó de lado la teología y los valores tradicionales, que promueve el ateísmo, el materialismo y legaliza toda clase de perversiones no puede ser considerada ni como cristiana ni como judía. Si Occidente hoy en día se dedica a apoya a Israel tal y como es ahora, no puede ser sino una gran ironía. Al fin y al cabo, la actual civilización occidental esta del lado del diablo, por lo que hablar de un mundo judeo-cristiano inexistente no tiene sentido. El mundo islámico, por el contrario, sí existe y sigue teniendo muchos elementos tradicionales, por lo que la actual lucha no puede entenderse en una especie de confrontación entre el mundo judeocristiano contra los musulmanes, sino más bien del mundo islámico en contra de la civilización satánica creada por el Dajjal. La idea de Biden de apoyar tanto a Ucrania como a Israel deja claro este punto, pues Occidente solo ayuda a quienes se someten a su hegemonía. El mundo musulmán, salvo países escatológicamente despiertos como Irán y Siria, no eran enemigos de Ucrania o aliados de Rusia, aunque es probable que todo esto cambie de ahora en adelante.
Rusia es uno de los polos del mundo multipolar y el mundo islámico también lo será. Ambos tienen en común su oposición a los desesperados intentos occidentales de preservar la unipolaridad y su dominio global a cualquier precio, incluso a costa de desatar una nueva guerra mundial. El conflicto palestino-israelí no había adquirido una dimensión de guerra entre civilizaciones, ahora sí lo es. Lo mismo sucedía con el conflicto regional entre Rusia y Ucrania, que hoy ha adquirido tal dimensión desde que Occidente comenzó a apoyar a los nazis de Kiev, convirtiendo a la guerra de Ucrania en la primera gran confrontación entre la multipolaridad contra la unipolaridad. La dimensión de estas confrontaciones no deja de crecer y la situación se torna cada vez más ominosa. Hoy en día miles de millones de personas en todo el mundo consideran que el Occidente colectivo y sus aliados son la encarnación del mal absoluto al servicio del Anticristo. Quizás solo el regreso de Trump al poder o el estallido de una guerra civil en Estados Unidos puede detener el inicio del Apocalipsis, o al menos posponerlo. Los demócratas, globalistas y neoconservadores están llevando a la humanidad directamente al abismo y, como muchos saben, allí habitan los demonios.
8 notes · View notes
diceriadelluntore · 1 year
Text
Tumblr media
Ho letto moltissimo questa estate, alcuni libri davvero deliziosi, ma questo, finito da qualche giorno, mi ha lasciato qualcosa dentro.
Mariamma è una sposa bambina che nell'anno 1900, quando ha solo 12 anni, nella comunità cristiana del Kerala (India sud-occidentale, ma all'epoca era diviso nei tre regni di Thiruvithamcoore, di Kochi e la provincia del Malabar) costretta al matrimonio con un uomo che non ha mai visto, e che ha oltre vent'anni più di lei. Viaggia da sola in barca sul fiume per arrivare alla tenuta del futuro marito, che in un primo momento rifiuta persino visto la sua età, ma che poi la introduce nel suo mondo, un pezzo di terra paludoso e che nessuno voleva, ma trasformato dal lavoro di quest'uomo in un piccolo paradiso di alberi da frutta, coltivazioni, canali navigabili. Si chiama Parambil, e tutta la storia del libro, che si svolge lungo tre generazioni di discendenti della giovane sposa, legano la propria vita a questo luogo, e alle magie che contiene. Fanno i conti soprattutto con la forza della Natura, specialmente dell'Acqua, che sia come fiume che come monsone, domina quelle terre, e ne delinea le fortune. Ma all'acqua è legato anche una sorta di maleficio, il Morbo lo chiama il marito di Mariamma, che segna la loro famiglia, la quale in un prezioso e antico foglio di carta di lino segna un macabro albero genealogico di uomini e donne colpite da questa maledizione. Attraverso lo svolgere degli eventi, che si legano alla storia dell'India (la fine del dominio britannico, l'indipendenza, le fortissime lotte interne a carattere sia religioso sia sociale) si dipana una storia meravigliosa scritta da Verghese con mirabile maestria, secondo un ritmico tempo descrittivo, ricco di particolari e minuziose ricostruzioni, figlio della sua educazione di medico, ai più alti livelli (è attualmente è vicepresidente del Dipartimento di Medicina presso la Stanford School Of Medicine).
Tra comunità religiose che la leggenda vuole fondate da san Tommaso, l'apostolo del dubbio, che si vuole martirizzato a Madras, tra tempeste colossali, viaggi in treni, fascinosi medici scozzesi, la vita degli ospedali indiani, i profumi e i sapori di quei piatti ricchi di spezie, ingredienti, di alberi che sembrano uomini e elefanti dalla sensibilità straordinaria, le oltre 700 pagine filano via senza nessuno sforzo, in un viaggio che sebbene legato alla magia alla fine verrà dipanato dalla scienza e dalla perseveranza dei protagonisti, che di fronte al Male, che appare nelle loro vite in molteplici forme, riescono a costruire sempre più forte la parte migliore di loro stessi. Un libro affascinante e che consiglio davvero per fare un viaggio forte e misterioso, al sapore di curry e di lotta, di frutta succosa e di dolore, per molti versi indimenticabile.
11 notes · View notes
curiositasmundi · 5 months
Text
[...]
Vanunu nel 1986 decise di rivelare al mondo che sì, è vero che Israele possiede l’arma nucleare, che sotto la centrale sperduta del deserto del Negev dove lui si recava ogni giorno a lavorare si trovava una fabbrica con plutonio sufficiente per produrre 200 armi atomiche. Erano stati i francesi negli anni 50 a confidare ad Israele i segreti militari dell’atomo ma la tacita convezione era di non dirlo pubblicamente. Anche se tutto il mondo lo ha sempre saputo.Dunque Vanunu, dopo un tormentato esame di auto-coscienza, prese accordi con il Sunday Times di Londra dove si recò per essere intervistato sulle sue preziose informazioni, proprio mentre le spie del Mossad seguivano i suoi movimenti. Perché non lo fermarono prima: ormai era fatta, fermare una rotativa non è come oggi buttare le copie di un giornale già stampato (come fa Molinari)… e poi un po’ di pubblicità non guasta mai poi. Lo lasciarono fare, dunque, e poi chiesero all’allora capo del governo di sua Maestà (era la Thatcher) se la disturbasse una operazione per rapire il loro tecnico. La signora di ferro rispose che non se ne parlava proprio, che non voleva grane in casa sua, si rivolgessero agli italiani che erano più laschi.
Fu così che i servizi di Tel Aviv architettarono un piano incredibile con il benestare delle autorità di Roma (allora a capo del governo era Bettino Craxi): fecero adescare l’ingenuo Mordecai da una bionda di nome Cindy che lo invitò a passare con lei un paio di giorni nella città eterna. Candidamente perso negli occhi dell’avvenente spia, Vanunu partì, trovando gli israeliani ai piedi dell’aereo sulla pista di Fiumicino. Messo in una macchina venne rapito e rispedito in Israele. Se fosse solo una spy-story sarebbe avvincente ma non è così. Iniziò il suo dramma: incarcerato in una prigione di massima sicurezza é stato rinchiuso in un lungo, totale isolamento, rilasciato dopo diciotto anni ma mai uomo libero perché sottoposto a crudeli regole: senza passaporto, con il divieto di avvicinarsi a meno di 500 metri da un porto o da un aeroporto, dalle ambasciate o dalle auto del corpo diplomatico o di incontrare un cittadino straniero senza autorizzazione.
Insomma, si aprirono per Mordecai le porte dell’inferno con una persecuzione vendicativa senza fine, metodo che oggi vediamo applicato su larga scala tra le strade di Gaza. Vanunu non è stato solo: come per Assange, fondatore di Weakileaks che ha rivelato come la santa alleanza occidentale fa le sue guerre di dominio, un largo movimento di solidarietà lo sostenne, chiedendo la sua liberazione e il disarmo dell’area mediterranea. Egli non agì per interesse personale né si offrì al mercato spionistico: la sua fu una scelta etica che poneva il mondo di fronte ai rischi della proliferazione nucleare.
[...]
6 notes · View notes
scienza-magia · 6 months
Text
Considerazioni di carattere generale sulla magia
Tumblr media
Il fenomeno della magia ha sempre costituito oggetto d’interesse per diverse categorie di studiosi tra cui gli storici delle religione i sociologi della religione gli storici sociali e gli antropologi culturali. Per quanto riguarda gli storici delle religioni dobbiamo dire che essi considerano l’universo magico come un ambiente labirintico e complesso. Vogliamo mettere in evidenza che gli storici delle religioni considerano l’universo magico costituito da almeno 3 livelli fondamentali : la folk magic i gruppi magici e la cultura esoterica. La folk magic è costituita dai rapporti interpersonali tra maghi e clienti che si instaurano per motivi esclusivamente strumentali. Infatti il cliente si rivolge al mago per risolvere problemi specifici e raggiungere obiettivi di vario tipo. Tra questi obiettivi è inclusa anche la possibilità di danneggiare terze persone attraverso l’uso di mezzi magici. A sua volta il mago accetta di soddisfare le richieste del cliente che ricompensa il mago fornendogli una adeguata ricompensa economica. Ma la folk magic è oggetto di studio non solo degli storici delle religioni ma anche dei sociologi della religione. Diverse sono le classificazioni riguardanti la folk magic ideati da questi studiosi. Per fare un esempio concreto i sociologi della religione hanno classificato i maghi in due categorie principali ovvero i tradizionali e i rampanti. I maghi tradizionali operano soprattutto in contesti rurali e non utilizzano le moderne tecnologie per rapportarsi ai clienti. Al contrario i maghi rampanti esibiscono attestati e titoli acquisiti in vario modo per dimostrare la loro competenza in materia magica ed astrologica. Tali maghi rampanti agiscono soprattutto in ambienti urbani e fanno spesso uso dei mass media per farsi pubblicità. Questi maghi appaiono regolarmente in trasmissioni televisive e radiofoniche utilizzando la loro immagine e il loro carisma personale come strumento per ottenere una sempre crescente popolarità. Il secondo livello dell’universo magico è rappresentato dai gruppi magici all’interno dei quali i rapporti interpersonali non sono strumentali ma dipendono in gran parte da fattori emotivi. Per dirla in altro modo all’interno dei gruppi magici non esistono rapporti dipendenti da fattori economici ma al contrario le relazioni interpersonali dipendono da quei fattori che sono importanti in tutti i rapporti non strumentali. Tali fattori sono : simpatia antipatia solidarietà e condivisione di obiettivi e fini. Dobbiamo dire che lo studio dei rapporti interpersonali presente all’interno dei gruppi magici continua a suscitare l’interesse di molteplici ambiti di studio. Il nostro mondo è popolato da numerosi gruppi magici ma anche nelle società del passato erano presenti tali gruppi. Uno dei gruppi più noti e diffusi nella società moderna è la Wicca una religione magica che ha raccolto un notevole consenso nel mondo occidentale in particolar modo nei paesi anglosassoni. Dobbiamo dire che la Wicca continua ad aumentare il numero dei suoi adepti e di conseguenza la sua importanza nel mondo moderno. Dopo il New Age la Wicca rappresenta il gruppo neo pagano più significativo e importante nella società contemporanea. Il terzo livello dell’universo magico è rappresentato dalla cultura esoterica che costituisce il grado più elevato e sofisticato del pensiero magico. Tuttavia a causa della sua notevole complessità non fa parte della cultura di massa comune alla maggior parte delle persone. Anche in passato l’esoterismo ha assunto diverse forme e modalità. Tra i rappresentanti più importanti dell’esoterismo nella società moderna figurano gli Julius Evola e René Guénon. Evola viene considerato il teorico dell’individuo assoluto poiché il suo magismo filosofico non tollera la formazione di comunità che si autorealizzano o di dominio della collettività sull’individuo di qualsiasi tipo. L’esoterismo di Evola può portare solo alla divinizzazione dell’individuo che diventa creatore e distruttore di tutto. Lo studioso non mostra alcuna pietà per i più deboli nonché per coloro che non possono reggere il confronto con gli altri uomini nei vari settori della vita sociale. Una caratteristica costante delle sue opere è l’invettiva contro il mondo moderno e la scentificazione della vita. In ultima analisi possiamo dire che Evola è fortemente influenzato dalla tradizione magico ermetica che ha avuto una grandissima importanza anche in passato. Per quanto riguarda Guénon dobbiamo dire che egli è considerato il più importante esponente del tradizionalismo esoterico che può essere considerato una forma di tradizionalismo integrale. Per dirla in altro modo il tradizionalismo di Guénon è una sorta di neo parmenidismo che vede nell’immutabilità ed eternità dell’essere universale l’unica vera fonte di salvezza. Egli propone una dottrina dell’identità suprema che può liberare l’umanità dalla decadenza del mondo moderno. Guénon interpreta l’intera storia dell’umanità in termini di progressivo allontanamento dalla tradizione e dal Principio Supremo. Concludiamo tale discorso su Guénon mettendo in evidenza che egli collega il suo tradizionalismo a un elemento non umano eterno e immutabile che è essenzialmente metastorico. In ogni caso vogliamo mettere in evidenza che il pensiero esoterico di Guénon che in alcuni ambienti della società moderna viene particolarmente apprezzato ed esaltato. Prof. Giovanni Pellegrino Read the full article
2 notes · View notes
ferrolano-blog · 7 months
Text
La transformación de Rusia... Los años noventa fueron época de enormes posibilidades de enriquecimiento privado para unos pocos, y de miseria y colapso demográfico para los más... En el ámbito internacional, fueron tiempos de humillación e impotencia con la ampliación de la OTAN... En los noventa, los “intereses rusos” (en realidad de la elite dirigente) consistían en llenarse los bolsillos, vía la privatización... Una vez realizada con éxito la reconversión social de la casta dirigente, con Putin comenzó el restablecimiento de la potencia rusa... La elite rusa cayó del caballo y comenzó a elaborar un plan para hacerse respetar por ese Occidente... El primer paso fue subordinar a la autoridad del Estado a los oligarcas... Jodorkovski, propietario de la petrolera Yukos que quería meter a las empresas americanas en el sector fue detenido y encarcelado diez años... Hoy, la elite depredadora rusa está formada por “capitalistas políticos”, es decir por un grupo social que extrae su ventaja competitiva de los beneficios que obtiene de su control del Estado... Los “oligarcas” rusos son objetos subordinados del Estado ruso, como la nobleza rusa lo fue de la autocracia zarista. (No son peores, pero son diferentes a sus homólogos occidentales)... en Rusia debe reconocerse un dominio en el que los intereses de la clase capitalista rusa sean respetados por el capital transnacional occidental. Para la elite depredadora occidental eso es inadmisible. Sus compañías, a las que los gobiernos están supeditados, no admiten ningún “coto”... si el capital occidental hubiera tenido libre acceso al control de los recursos energéticos y minerales de Rusia no habría habido ampliación de la OTAN... La pelea entre el capitalismo globalista transnacional occidental y el capitalismo político ruso está empujando a Moscú a cierta “sovietización”; a cambiar el contrato social en política interior con más distribución, más control estatal, más keynesianismo y menos mercado, y, ciertamente, con más represión... El resultado es tan pintoresco como observar al Presidente Putin, un decidido conservador, anticomunista y partidario de la “economía de mercado”, hacer el elogio de Fidel Castro, el Che Guevara y el Presidente Allende... una transformación de gran importancia para el conjunto del mundo (Rafael Poch)
2 notes · View notes
Text
Tumblr media
VENTUNESIMO SECOLO - di Gianpiero Menniti
MASCHILE E FEMMINILE: IL MUTAMENTO PROFONDO
Tra le fonti del romanzo "Le Streghe di Shakespeare" c'è un testo singolare.
Anni fa, parecchi anni fa (fine anni '80, primi '90 del secolo scorso) venni incuriosito da un titolo inconsueto, "Occidente misterioso - Baccanti, gnostici, streghe: i vinti della storia e la loro eredità".
A interrogarmi non era solo l'esordio del libro ma il nome dell'autore, Giorgio Galli, scomparso nel 2020, storico e politologo milanese di riconosciuto valore.
Inaspettatamente, l'insigne docente di storia delle dottrine politiche aveva dato alle stampe un volume per raccontare che i vinti nascosti della storia fossero spesso alcuni "modelli femminili di visione del mondo", relegati nell'impulsività mistica e quindi osteggiati per la loro forte carica emotiva, in apparenza contrari alla genesi razionalista delle società considerate progredite e naturalmente, cosa più importante, ai loro assetti.
Dal mondo antico fino all'età moderna.
Dunque, sostiene Galli, nei «passaggi cruciali della costruzione dell'Occidente come civiltà, le tensioni e i conflitti tra "femminile" e "maschile" hanno avuto un ruolo superiore a quello sinora loro accreditato.».
Ancora più singolare fu l'accoglimento della robusta e davvero interessante tesi di Galli: il sistema accademico italiano lo sospinse in un limbo di marginalità.
Il suo libro venne in altri casi fortemente criticato come si fosse trattato di uno "scivolone" dell'illustre cattedratico.
Aveva toccato un nervo scoperto il buon Galli?
Nessuno, a mia memoria, entrò mai nel merito della sua proposta interpretativa, certamente molto avanzata in quel torno di fine millennio.
Lo studioso non si arrese e negli anni successivi coltivò il filone.
Galli aveva indirettamente chiarito, argomentando con dovizia, quanto fosse rimasto fervente, nel corso di un lunghissimo arco di tempo, il fiume carsico dei diritti in capo al genere femminile, la portata storicamente rilevante degli assetti sociali costituitisi anche sul contrasto verso rivendicazioni ritenute eversive e infine si basasse su quell'antica polarizzazione anche l'origine dei fermenti politico-sociali che attraversarono l'800 e il '900, secoli nei quali si è consumata la formula stantia della superiorità "maschile", ormai ampiamente decaduta e oggi in procinto di crollare definitivamente.
Si badi: non si tratta di ridurre la storia a una divisione di potere e contropotere tra i sessi (sarebbe una grossolana fandonia) ma di saper cogliere, come Galli riuscì a fare, l'importanza di questo dinamico confronto socio-culturale percorrendo l'arco del pensiero e dunque della civiltà occidentale.
Tutti i processi storici sono segnati da avvenimenti che fanno da detonatore, come recenti e tragici casi di cronaca nera insegnano da noi.
E che osserviamo in misura ancora più rilevante in scenari distanti dal nostro modello: gli accadimenti in Iran, con la "polizia morale" che massacra ragazze indifese, sono l'esempio lampante della discrasia tra un potere reazionario e una società che sul riconoscimento delle libertà individuali in capo al genere femminile e dell'habeas corpus in particolare, arriverà ad abbattere quelle obsolete forme di dominio e con esse l'intero assetto sociale, dello Stato e dei fondamenti religiosi sui quali si regge.
Quando accadrà - e accadrà anche se le martiri saranno ancora molte - quale corso prenderà la storia in Medio Oriente?
Dunque, in relazione causale, nel resto del globo?
Nessun cambiamento di status si è mai affermato pacificamente.
Ma il cambiamento è in atto, ormai segnato e inarrestabile.
Ed è, in non rare occasioni, coinciso, quando racchiuso in termini avanzati (poichè esiste anche un conservatorismo di stampo femminile non meno intransigente e detestabile) con il ruolo delle donne.
Tumblr media
Questo sostengo facendomi breccia, implicitamente, attraverso il buon Galli, storico acuto e politologo lungimirante.
Gli idioti (nel significato originario greco) non se ne avvedono.
Gli imbecilli (nell'etimologia latina) tentano di contrastarlo.
Ne "Le Streghe di Shakespeare" l'argomento è scavato ancora più profondamente, in chiave antropologica.
Fino a contemplarne l'origine.
Sepolta in un abisso scabroso.
Nelle immagini: "Grande Dea Madre", periodo Paleolitico, collezione Mainetti, New York
Tumblr media Tumblr media
6 notes · View notes
armatofu · 11 months
Text
¿Dónde se habla el latín?
Tumblr media
el Vaticano
A día de hoy, el único Estado del mundo en el que el latín es lengua oficial es el Vaticano, aunque en la práctica trabajan en italiano y francés, y después traducen los documentos a la lengua oficial. Con todo, los papas han llevado el latín hasta la cúspide de la modernidad.
¿Qué es el latín y de dónde proviene?
Tumblr media
El latín es una lengua indoeuropea, es decir, que pertenece a una familia de lenguas cuyo origen se remonta hacia 4000 años a.C., cuyos primeros hablantes habitaban el sureste de Europa y Asia central. Europa recibió diversas oleadas de migraciones de pueblos indoeuropeos.
¿Qué es el idioma latín?
1. m. Lengua indoeuropea, originaria del Lacio, que hablaban los antiguos romanos y de la cual derivan las lenguas romances.
¿Quién hablaba el latín?
El latín, que en un principio era un dialecto hablado por el pueblo que habitaba en la región del Lacio (Italia central), se impuso en toda Europa como la lengua oficial del Imperio Romano.
¿Qué país inventó el latín?
El latín es una lengua originaria de Italia central; a medida que fue ampliándose el dominio de la ciudad de Roma, su uso se extendió inicialmente a Italia y luego a todo el Mediterráneo occidental y Europa central.
¿Por qué el latín es una lengua muerta?
Tumblr media
En resumen, al no ser una lengua asimilada de forma natural por los pueblos, en cuanto dejó de obligarse su uso, comenzó a desaparecer. Otra explicación de que los hablantes de latín fueran mermando es la evolución cultural de las sociedades occidentales.
¿Qué idiomas se derivan del latín?
Estas lenguas son las que hoy conocemos como lenguas romances, románicas o neolatinas, y son: español, portugués, gallego, catalán, proven- zal, francés, italiano, rético, sardo, dálmata y rumano.
¿Qué lenguas de España provienen del latín?
El latín vulgar que se hablaba concretamente en Hispania se conoce como latín hispánico, que daría lugar a distintos dialectos peninsulares y estos evolucionaron en las lenguas que conviven actualmente en España: el castellano, el gallego, el asturleonés y en parte, el aragonés y el catalán (aunque en estos hubo ...
¿Qué fue primero el latín o el griego?
el SÁNSCRITO (3.500 años desde cerca del 1.500 AC), el HEBREO (3.200 años desde cerca del 1.200 AC), el GRIEGO (3.100 años desde 1.100 AC) y el LATÍN (2.800 años desde poco antes de la legendaria fundación de Roma en el año 753 AC), pues aún son bastante inteligibles hoy comparadas con sus orígenes más antiguos.
¿Qué lengua no procede del latín?
El Euskera: es la única lengua que no procede del latín, con lo cual es una lengua prerrománica. Se habla en EL PAÍS VASCO Y NAVARRA. El Catalán: Otra lengua que procede del latín vulgar y se habla en CATALUÑA y COMUNIDAD VALENCIANA. El Aragonés o Aranés: es una lengua histórica que también procede del latín vulgar.
2 notes · View notes
itisanage · 11 months
Text
Perché non viene esercitata la misericordia? Eppure è un attributo importante di Dio. Lo stesso Dio pantocratore, vale a dire Colui che possiede non tanto tutta la forza del mondo, e la esercita, bensì la superiorità e ogni preminenza possibile, più volte nella Bibbia si ferma di fronte alla possibilità di colpire e distruggere il popolo che lo ha tradito o che non l’ha ascoltato. Per i Greci era Zeus a conferire, come e quando voleva, il krátos a una delle armate in lotta. Una superiorità che mutava secondo gli umori del dio. Ma lungi dall’essere confinata alla guerra la superiorità è anche una manifestazione del potere esercitato dal re, dal capo, dall’eroe. Il trionfo, il vantaggio che si trasforma in vero esercizio del potere deve sapersi fermare, deve sapersi arrestare. Certo l’esercizio del potere è caratterizzato da un certo progressivo indurimento, un rapprendersi della violenza nel dominio temporalmente più lungo possibile. L’uso che la cultura greca-omerica fa di queste due accezioni – in realtà molto più di due – del krátos, almeno come le spiega Emile Benveniste, è molteplice e si allunga in epoca post-omerica a fornire lemmi a profusione al vocabolario politico occidentale. Il Dio di misericordia rompe con il Dio degli eserciti, anche quando appare nelle “mandorle” bizantine come il Pantocratore. Perché non si riesce più a tener conto di questa rottura? Perché si è regrediti a Omero? Forse addirittura a prima, perché neppure si prende in considerazione la differenza che già la grecità manteneva circa l’uso del krátos! Scrive Benveniste citando la Costituzione di Sparta: “mentre gli altri Greci ammorbidiscono i piedi dei loro bambini calzandoli, gli Spartiati induriscono (kratúnousi) i piedi dei loro, facendoli camminare a piedi nudi”. O rivestiti di acciaio, come i carri armati Merkavah? Nel primo capitolo del profeta Ezechiele, Merkavah è il carro di Dio, dalla cui visione sono nate infinite speculazioni esoteriche, Ma‘aśeh Merkavah e nella tradizione talmudica l’Hekalot. Lo dico da lettore, e solo da lettore quale sono, ma la polarità Atene Gerusalemme rischia di trasformarsi in una ben più terribile Gerusalemme Sparta.
P.S. Misericordia e perdono non stanno perfettamente insieme, ma entrambi possono essere esercitati solo da chi ha forza d’animo. Il perdono di chi vince e quindi perdona chi l’ha costretto a vincere, vale a dire a usare la forza e a conservarla; la misericordia di chi avendo vinto riconosce la sconfitta dell’altro un po’ come la propria, perché ogni vittoria ottenuta con la violenza testimonia non solo della forza ma anche del cedimento alla malvagità altrui.
2 notes · View notes
crazy-so-na-sega · 1 year
Text
BRICS: Come e perchè dell’ennesimo inganno -parte 2 -Cina Russia
I seguenti sono i due colossi petroliferi cinesi, di cui la prima è la terza per fatturato del mondo, ufficialmente dichiarata come Compagnia Integrata dallo stato: Falso.
Tumblr media Tumblr media
Di seguito, i colossi bancari, le assicurazioni, industrie farmaceutiche e altro.
Tumblr media Tumblr media
Si potrebbe andare avanti per giorni, ma riteniamo quanto esposto un esempio esaustivo al fine di comprovare come le corporations cinesi, pontificate come meri colossi che si oppongono al dominio occidentale, non siano altro che l’altra faccia della medaglia dello stesso potere che muove il mondo: gli usurai ai vertici delle banche centrali, i quali sono gli stessi al comando delle banche private, dei grandi fondi di investimento e delle multinazionali. Ora passiamo alla Russia.
Iniziamo dai due colossi del gas e domandatevi perchè nessuno parla di chi sia al vertice di Gazprom, dato che il tema in questione è molto in voga di questi tempi.
Tumblr media Tumblr media
Interessante, non è vero? Ora proseguiamo con i colossi petroliferi e altri ancora. Di seguito abbiamo Lukoil a Transneft. La seconda è fondamentale, poichè gestisce oltre 70.000 chilometri di gasdotti e oleodotti e trasporta grosso modo il 90% del petrolio e il 40% dei derivati petroliferi prodotti in tutta la Russia, oltre a enormi volumi di idrocarburi grezzi provenienti dai paesi della CSI, ossia l’Organizzazione internazionale di cooperazione economica, politica e militare creata nel 1991 contemporaneamente con lo scioglimento dell’URSS di cui fanno parte Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Russia e Uzbekistan (Turkmenistan ritiratosi nel 2008 e Ucraina altrettanto nel 2018, che “casualità…”) La società, comunque, è quotata alla borsa di Mosca, dove i nostri cari “amici” banchieri internazionali sono di casa.
Tumblr media Tumblr media
Degna di nota è la questione inerente la corporations denominata Sistemi (AFK Sistema Pao), la società che gestisce il sistema di difesa militare russo e che fornisce i codici di preallarme a Vladimir Putin. Completamente nelle mani dei grandi banchieri internazionali, i padroni che Putin, come tutti gli altri, serve senza fiatare.
Tumblr media Tumblr media
Anche in questo caso si potrebbe andare avanti per ore, ma ci fermiamo qui poichè vi è la necessità di evidenziare ancora un altro aspetto, probabilmente il più importante. Si sottolinea che i dati sugli azionariati sono reperibili direttamente dai documenti finanziari delle rispettive compagnie, resi noti dal portale MarketScreener.
Chi governa i paesi dei BRICS?
Esattamente chi governa e controlla i paesi occidentali. Le banche centrali del mondo, (tutte e 160) sono controllate e governate da un unico potere: Bank for International Settlements – Banca per i Regolamenti Internazionali (sul suo portale ci sono tutte e 160 con tutto quello di cui si vuole sapere annesso e connesso). Tale organo è il più potente del mondo, gode di immunità totale (non può essere inquisita, denunciata, messa sotto processo, diffidata, niente di niente) come specificato dal “Protocollo delle immunità della Banca dei Regolamenti Internazionali” che trovate qui
nei seguenti articoli, stabilisce:
[continua parte 3]
---
2 notes · View notes
arcobalengo · 1 year
Text
🇬🇧SEGRETARIO ALLA DIFESA BEN WALLACE: ENTRO IL 2030 UK IN GUERRA CON LA RUSSIA
Entro il 2030, la Gran Bretagna entrerà in un conflitto globale con la Russia. Così il segretario alla Difesa UK Ben Wallace in un'intervista a The Sundy Times. Il capo del dipartimento militare britannico ha descritto il futuro da guerra mondiale che attende il Regno Unito: “Alla fine del decennio" ha detto "il mondo diventerà molto più pericoloso e incerto. Penso che saremo in conflitto. Sia che si tratti di un conflitto freddo o di un conflitto caldo, penso che ci troveremo in una situazione difficile". Wallace vede la Russia come la principale minaccia al dominio del mondo occidentale sulla stabilità mondiale. (Fonte: The Sundy Times)
Ci permettiamo di non stupirci troppo di queste dichiarazioni.
🟥 Segui Giubbe Rosse
Telegram | Portale web | Ultim'ora | Twitter | Instagram | Truth Social | Odysee
2 notes · View notes
votontam · 1 year
Text
Ventanas de Relacionamiento Externo para América Latina (2)
“Hoy por hoy, nuestro mejor negocio es la paz..”(Augusto C. Sandino)
En el presente análisis continuo los desarrollos argumentativos relacionados con las variables de asociación externa para el espacio civilizacional sudamericano, con extensión al resto de América Latina. Para completar el escrito anterior, me refiero a Asia, principalmente China e India, y Eurasia, con centro en Rusia. La hipótesis guía se mantiene igual, saber: la mejor opción para esta región es permanecer no alineada, afirmación que se extiende tanto a la coyuntura internacional actual con un conflicto híbrido en Ucrania con proyección mundial, así como en su acomodamiento político y económico internacional en la emergencia de un mundo multipolar, consecuencia directa de dicho conflicto y de la pérdida de poder relativo internacional de Estados Unidos, eje del esquema unipolar que caracterizó la post-Guerra Fría.
Se vio como con relación a los EEUU y la UE, se dan escollos para producir un efectivo estrechamiento de relaciones integrales. Estas entendidas como puentes de mutuo beneficio y proyección a mediano y largo plazo de flujos de intercambios que efectivamente contribuyan al despegue de los países del sur, asolados por múltiples flagelos propios de su condición de emergentes o en vías de desarrollo económica1. En tal sentido, se mencionó cómo la configuración de nuevos polos de poder se revelan en la progresiva consolidación de bloques de países emergentes y potencias regionales y hasta internacionales en algunos casos, como una alternativa adicional de articulación de inserción internacional basada en complementariedades en creciente expansión y consolidación.
El actual contexto internacional de fragmentación política entre antinomias como democracia vs. autoritarismos, tensión geopolítica, proteccionismo y regionalismos económicos, favorecen el surgimiento de dichos centros de poder como manifestaciones de interés nacional. Los desafíos de adaptación a las condiciones cambiantes que dicha realidad impone se vinculan a fenómenos de reformulación de la globalización económica por parte de potencias dominantes, principalmente los Estados Unidos, donde el planteo de un “nuevo Consenso de Washington” es un desafío aún para los países de mayor desarrollo relativo2. Tanto los subsidios aplicados para promover una reindustrialización de dicho país y construcción de cadenas de valor más seguras y menos dependientes de terceros países, como el planteo de políticas ambientalistas y de agenda digital con un enfoque predominantemente dominado por una agenda de seguridad y defensa, son un desafío abierto aún a sus socios más cercanos del G7. En tal sentido, cambiar el concepto desacople tecnológico y comercial de China por el de “de-risking” (disminución de riesgo), suena más como algo retórico, aunque la tendencia es la búsqueda de un desacople que permita reformular la vinculación tecnológica, económica y comercial de empresas occidentales con dicha potencia asiática.
El golpe fatal que ello implica a organismos como la Organización Mundial del Comercio (OMC), que ofrece un ámbito adecuado para los países emergentes en su búsqueda por condiciones justas y equitativas para el desarrollo del comercio internacional, no es más que un modo de frenar el ascenso de China como actor clave en el tablero internacional3. La pandemia del COVID 19 y el conflicto en Ucrania han acelerado dicho proceso por las disrupciones que ambos fenómenos han ocasionado en los intercambios entre los países y la nueva irrupción del Estado en procesos de los que se había prácticamente retirado. En tal sentido, todo indica que la globalización se ha desnudado de todo ropaje de neutralidad e imparcialidad y la competencia entre los potencias mundiales por el dominio y control en sectores claves es el paradigma dominante, desplazando ideologías y valores de cualquier tipo4.
En tal contexto, la dicotomía democracia-autoritarismos, que conceptualmente responde a valoraciones axiológicas, cae porque prácticas cercanas a una “antidemocracia” se expande aún en países considerados líderes y arquetipos por su adhesión a las formas democráticas, como los EEUU5. Es así como se observa como cada vez es más frecuente que las elecciones estén rodeada de sospechas de fraude, que las grandes corporaciones ejercen un control de los resortes de poder más allá de los gobiernos de turno, que las posibilidades para auténticas alternativas de poder político son mínimas y los mecanismos de movilidad social se han visto trabados de múltiples maneras. Estos fenómenos políticos y sociales muestran que en un mundo donde los valores pasan paulatinamente a un segundo o tercer plano, la lucha por el poder y control en las dimensiones internacional y doméstica definen oportunísticamente todas las otras variables.
Frente a ello la civilización sudamericana se asoma con una confirmación de su voluntad integradora, una voluntad expresa de reafirmarse en el mundo como zona de paz y cooperación, con base en la democracia y respeto a los derechos humanos, así como el desarrollo sostenible y la justicia social, así como la voluntad expresa de desarrollar una área de libre comercio sudamericana. Tales son los principios consagrados en la reciente reunión que mantuvieron los presidentes de esta región en Brasil, al aprobar el “Consenso de Brasilia”6.
La primera cuestión que surge es la combinación de dichos objetivos integradores y de desarrollo regional frente a un sistema internacional y global con los complejos rasgos antes descriptos. El reconocimiento de Asia como una región donde la tendencia afín a la multipolaridad es más notable7, se suma a las más dramáticas manifestaciones en el mismo sentido en Eurasia, principalmente por el conflicto en Ucrania. Sin embargo, entender la dinámica de las potencias dominantes en tales regiones es relevante para no confundir necesidades propias con las de las potencias de dichas regiones, las que también siguen una lógica de poder propia, que puede coincidir en cierto grado con las demandas y exigencias locales. Redibujar relaciones exteriores para Sudamérica haría parte de un diseño en el que la prioridad y norte es la integración y desarrollo estratégico local.
En tal sentido, la integración regional para revertir el lastre de décadas de escaso avance, tiene frente a sí el cometido de procurar una institucionalidad tal y reglas de juego comunes, que lleven a un ambiente en el que las naciones partes, sin disolverse, encuentran un espacio común donde la concertación y convergencia sistémica sea viable y permanente8. La vinculación externa de tal espacio es una de las facetas que juega un rol clave en dicha dinámica, por lo que la adecuación estratégica a tales objetivos es inherente a tal proceso integrador y tiene el potencial de actuar como incentivador y condicionante del proceso de integración como tal. En la situación de mayor debilidad relativa del bloque más exitoso de América del Sur, el MERCOSUR, con relación a otros centros de poder mundial, se observa la competencia entre dichos actores por tener una mayor presencia y dominio en las economías del bloque.
Tal realidad, en una situación de mayor vulnerabilidad relativa, lleva al ejercicio de una diplomacia triangular en el que el MERCOSUR como actor más débil está llamado a una amistad estratégica constante con los otros centros de poder, funcional con una política de seducción y atracción económica y tecnológica, y un juego pendular de alineamiento selectivo y no permanente, a geometría variable, según ámbitos y áreas temáticas de que se trate. En la comunidad internacional, como referente de tal tipo de política, se observa el caso de la India, con una diplomacia equilibrada, balanceada9, que tiende en primer lugar a su interés nacional, en torno al cual va ajustando sus amistadas tradicionales, haciendo coincidir relaciones estratégicas con Rusia y los Estados Unidos, a la par que una política equidistante de vinculación con China, con la que la tradicional competencia es amortiguada con la pertenencia común a “clubes de amigos” de tipo revisionistas, como el BRICS y la Organización de Cooperación Shanghai. Al mismo tiempo, su neutralidad en el conflicto en Ucrania y simpatía con Rusia, no priva a este país de pertenecer al arco de pactos de seguridad y defensa creado por los EEUU en el Indopacífico, como contención estratégica hacia China.
Es más la India a través de su “digital public infraestruture (dpi)” está creando su propia Ruta de la Seda digital, la que no sólo crea un sistema resiliente y que ofrecer soluciones ante posibles sanciones internacionales del tipo que sufre Rusia, sino que genera una vertiente de articulación interna-internacional poderosa y expansiva10. Dicho ejemplo del uso del instrumento digital es muy útil para su emulación por parte América Latina. Sin embargo, la India tendría un problema demográfico a futuro por su relativamente lenta absorción de población económicamente activa joven por no haber favorecido actividades económicas más industrialmente intensivas11.
Considerar la competencia entre grandes potencias en América Latina es un modo de acercarse al tema eje de este artículo, en cuando analizar las conveniencias que ofrecería un mayor acercamiento a un bloque o país más que otro. En dicha competencia, China ha producido importantes avances en múltiples frentes, ante falencias y vacíos de las políticas de los EEUU y UE, según lo visto en el análisis anterior12. Ya sea como socio comercial, prestamista de última instancia, inversor en obras de infraestructura, transporte y conectividad o como socio tecnológico, China ha mostrado habilidad y conocimiento en su acercamiento y penetración en América Latina.
En una comparación histórica, los intereses geopolíticos de China han sido mejor manejados que la Unión Soviética13, por lo que si los Estados Unidos han descuidado a sus vecinos del sur por ser una región pacífica, China justamente los aprovecha bajo esa condición y desde sus necesidades y proyección de intereses globales. Dicha política, contextualizada por múltiples analistas como una de tipo Sur-Sur, es afín a una enfoque chino de no intromisión en asuntos internos, por lo que no asume un rol crítico hacia falencias en los sistemas de gobierno o la corrupción o hacia otros flagelos. Tal encuadre es bien visto por los líderes de la región vis a vis las políticas seguidas por los EEUU y la UE y constantes reclamos según un libreto determinado.
Un factor crucial en estos procesos es el histórico flagelo de la pobreza en América Latina, consecuencia de múltiples factores, entre los que resaltan los procesos truncos de industrialización y de desarrollo científico y tecnólogico autónomos. Al respecto, China es vista como un ejemplo a seguir14, por los logros conseguidos por dicho país en períodos relativamente cortos de tiempo. Sin embargo, se dan importantes matices sobre el sistema político en que tales cambios han sido realizados, lo que plantea incompatibilidades con la adhesión de América Latina a regímenes nacionales e internacionales basados en valores democráticos y humanistas, que se ordenan jerárquicamente en una estructura piramidal de derechos políticos, civiles y económico-sociales, que está en la génesis de las naciones que componen este espacio civilizacional.
De este modo, se genera una bisagra de relacionamiento selectivo para América Latina, al que me refería antes, en donde China avanza estratégicamente en la región; los EEUU reconocen que “necesitan más herramientas para poder competir con China en América Latina”15; y la Unión Europea reconoce la necesidad de reforzar la relación entre dicho bloque y América Latina, como un “imperativo estratégico”, con objetivos de trabajo en una mayor coordinación y concertación en la próxima reunión UE-CELAC16.
La proyección de China en esta región sigue un sutil lógica de competencia con Occidente en los sectores mencionados, sin que se observe una voluntad de exportar su modelo, sino principalmente de expandir su proyecto geopolítico y económico. En éste la Ruta y Franja de la Seda son centrales, lo que incluye una muy activa y constante política en sectores blandos, como producciones culturales y linguística17.
Con relación al trazado de dicha ruta estratégica en Asia y Europa, según se observa en el mapa a continuación, curiosamente no tiene a Rusia como uno de los nodos de desarrollo. Ello a pesar de la relación especial y estratégica que tienen ambos países, demostrada particularmente en el apoyo en múltiples frentes de China a Rusia en el conflicto en Ucrania. Apoyo, que si bien es limitado y también funcional a intereses chinos18, da a Rusia una apalancamiento estratégico clave en la delicada confrontación que tiene por delante con la OTAN en conjunto. Si bien Rusia es funcional al desarrollo de tal ruta por parte de China, al mismo tiempo está dotada de una especificación propia como potencia regional y mundial y espacio civilizacional identificado como tal, eje de Eurasia, con una proyección propia como centro de pensamiento y acción humanista, no definida ideologícamente, ni materialmente unida al concepto productivo chino, ni al paradigma de progreso capitalista.
Tumblr media
Fuente: https://t.me/razvitie_in/3075
Esto nos lleva a la consideración con relación a América Latina del otro actor relevante en el emergente orden multipolar, Rusia. Concluida la era de la Unión Soviética, Rusia ha caracterizado su relacionamiento con esta región desde una perspectiva desideologizada y pragmática19. En su constante política de no intervención en asuntos internos y respecto a facetas de la política interna se asimilaría a China. Misma acotación respecto a la búsqueda de dotar al naciente multipolarismo de instrumentos adecuados, tales como uso de modelas alternativa al dólar en los intercambios financieros y comerciales internacionales, creación de infraestructura y logística para vinculación económica internacional por fuera de los circuitos occidentales. El conflicto en Ucrania y el desarrollo de una guerra económica y tecnológica contra Rusia y China ha acentuado el posicionamiento ruso y ha intensificado la alianza entre los dos países.
La dicotomía entre Rusia y Occidente continuará, ya que el nuevo concepto de política exterior de Rusia plantea los pilares del denominado mundo ruso o nueva paz rusa (russkiy mir)20, el que se asienta en valores humanos, curiosamente, similares a los occidentales cristianos. Según dicho planteo Rusia es una espacio civilizacional euroasiático, lo que responde a su conformación geográfica, como así también a la cuestión poblacional-territorial donde se asientan los nacionales rusos. De este modo, se produciría cierto choque con límites más westfalianos sobre los que se venía asentando el complejo Estado-Nación. Esta situación avisora conflictos a futuro entre Rusia y Occidente de carácter prolongado atento el carácter global de la avanzada occidental y la barrera cultural-política y finalmente militar interpuesta por Rusia para proteger la civilización euroasiática, de que este país sería el eje. La no inclusión de Rusia en el trazado de la Ruta de la Seda visto en el mapa más arriba, se relaciona con dicha cuestión.
La Unión Económica Euroasiática (UEE), conformado por Rusia, Armenia, Kazajstán y Kirguistán) ha manifestado reiteradas vec. es que considera a América Latina como socio “prioritario”21. La afinidad en valores culturales asentados en raíces humanistas, se prolonga con potencialidades de complementación económica-comercial, como así también posibilidades de cooperación tecnológica, en infraestructuras, energía, transporte. Sin embargo, la compleja situación en que se encuentra el socio mayor de la UEE, presenta desafíos para avanzar con una agenda prometedora, que podría ser un balance ante la creciente presencia china, al mismo tiempo que no constituye un desafío para sectores sensibles del comercio internacional del tipo que lo son la UE o los EEUU.
Conclusión:
Se ha visto cómo el sistema internacional está progresivamente signado por la fragmentación y la polarización en un trasfondo de alta tensión y conflictividad en múltiples regiones geográficas22. Se ha tomado el caso de tres potencias, India, China y Rusia, que desafían el orden internacional imperante por el simple hecho de buscar proyectar sus intereses nacionales y ejercer cuotas de poder en la comunidad internacional. Dichos esfuerzos se mostrarían como parte de una convergencia de pensamiento y acción, afín a otras potencias medianas, tales como Irán, Turquía, Sudáfrica o Brasil. Estos procesos se dan con un telón de fondo en el que desde hace tiempo se viene hablando del traspaso de ciertos componentes del poder internacional de Occidente a Asia (demografía, economía, comercio, tecnología).
En dicho contexto, América Latina, con eje en el espacio civilizacional sudamericano, al mismo tiempo que se ve sujeta a estos vaivenes de la política y geopolítica internacional, es poseedora de recursos estratégicos a escala global23, por lo que está llamada a tener voz y voto en la comunidad internacional. En un escenario de intensa competencia estratégica, su alineamiento selectivo con las potencias revisionistas, a la par que su histórica amistad con los EEUU y la UE, podría darle posibilidades para apalancar sus procesos de integración y construcción estatal estratégica, con un ejercicio hábil de diplomacia a múltiples frentes, compromisos firmes con los valores que están en la génesis de su ser nacional e institucional, negociación constante para mejorar su situación tecnológica y económica y voluntad firme de conformar un espacio integrado con una única voz. La competencia de las grandes potencias en esta región debe ser aprovechada en dicho sentido y para tal fin.
La compleja situación financiera internacional, que se extiende entre las principales potencias del mundo, reafirma para esta región la necesidad de relaciones variadas y a geometría selectiva, a la vez que la promoción y firme decisión de mecanismos de integración que consoliden los instrumentos de política monetaria, fiscal y desarrollo agrícola, industrial, tecnológica y de servicios en esta región.
RAPA
29/05/23.
Notas:
1https://buenosynuevosaires.blogspot.com/2023/04/principales-ventajas-por-opciones-de.html
2“How America is reshaping the global economy”. Financial Times. Reino Unido, 05/06/2023.
3“The economic government of the world -globalisation’s end?”. Financial Times. Reino Unido. 24/05/2023.
4ALVARO SANCHEZ: “La gran subasta de la globalización: EEUU, China y Europa tiran la chequera para dominar sectores claves”. El País. España. 29/05/2023.
5MAURICIO VARGAS LINARES: “La antidemocracia gana terreno en el mundo”. El Tiempo. Colombia. 17/05/2023.
6“Consenso de Brasilia: qué dice el acuerdo que firmaron los presidentes”. Ambito Financiero. Argentina. 31/05/2023.
7FELIX PEÑA: “La integración económica regional y un sistema global que es difícil de entender”. La Nación. Argentina. 11/05/2023.
8FELIZ PEÑA: “Hay que renovar los métodos empleados en los procesos de integración sudamericana”. La Nación. Argentina. 08/06/2023.
9“Kissinger: for the safety of Europe, get Ukraine into NATO”. The Economist. Reino Unido. 18/05/23.
10https://www.economist.com/asia/2023/06/04/how-india-is-using-digital-technology-to-project-power
11IRFAN NOORUDDIN: “India is now the world´s most populous contry. Can ist economy keep up?. New Atlanticist. 02/05/2023.
12https://buenosynuevosaires.blogspot.com/2023/04/principales-ventajas-por-opciones-de.html
13“China come terreno a EEUU en Latinoamérica”. El País. España. 15/05/23.
14“Especial: Investigadores argentinos destacan importancia de profundizar lazos de cooperación con China”. Xinhua. China. 10/05/2023.
15RAFAEL MATHUS RUIZ: “El Embajador Stanley admitió que EEUU necesita más herramientas para poder competir con China en América Latina”. La Nación. Argentina. 04/05/2023.
16“Borrell: reforzar la relación entre la UE y América Latina es un imperativo estratégico”. SWI. Suiza. 07/06/23.
17MARIANO BELDYK: “Por qué China mira hacia la Argentina, Latinoamérica y el Caribe, en clave global”. El Cronista Comercial. Argentina. 29/05/23.
18“Russia, China sign economic deals despite Western criticism”. Deutsche Welle (DW). Alemania. 24/05/23.
19“Cooperação da Rússia com América Latina baseia-se em abordagem desideologizada e não ameaça ninguém”. Folha de São Paulo. Brasil. 13/04/2023.
20ANDREW A. MICHTA: “Putin´s Eurasian fixation reveals ambitions beyond Ukraine”. New Atlanticist. EEUU. 04/05/2023.
21VICTOR TERNOVSKY: “América Latina, socio prioritario para la Unión Económica Euroasiática”. Sputnik. Rusia. 24/05/2023.
22ANDRES RUGELES/ALVARO MENDEZ: “China y el ajedrez geopolítio de América Latina”. El País. España. 05/05/23.
23https://www.ambito.com/opiniones/geopolitica-suramericana-integracion-regional-ydesafios-ambientales-el-siglo-xxi-n5738661
3 notes · View notes
napoli-city · 17 days
Text
Concorso per 1 dirigente medico (friuli venezia giulia) AZIENDA UNITA' SANITARIA LOCALE N. 6 'FRIULI OCCIDENTALE' DI PORDENONE
Author: http://www.concorsi.it Data : 2024-09-05 06:07:46 Dominio: http://www.concorsi.it Leggi la notizia su: Concorsi.it LEGGI TUTTO AZIENDA SANITARIA FRIULI OCCIDENTALE DI PORDENONE CONCORSO (Scad. 29-09-2024) Conferimento, per titoli e colloquio, dell’incarico di dirigente medico – direttore della S.C. Medicina interna Spilimbergo. In esecuzione del decreto n. 620 del 2 agosto 2024, e'…
0 notes
jgmail · 22 days
Text
Globalización, desglobalización y producción de conocimiento
Por Navnita Chadha Behera
Traducción de Juan Gabriel Caro Rivera
International Affairs, Volume 97, Issue 5, September 2021, Pages 1579–1597, https://doi.org/10.1093/ia/iiab119
Las Relaciones Internacionales (RI), a más de un siglo después de su nacimiento, aún no han sido capaces de superar sus orígenes angloamericanos (1). A pesar del dominio cada vez más amplio de sus investigaciones y de su importancia global, el carácter intrínseco de esta disciplina sigue siendo eurocéntrico (2). Apartándose de la sabiduría convencional que apunta a los marcos teóricos occidentales de las RI, este artículo intenta dar una explicación diferente de su historia intelectual llamando la atención sobre cómo la Ilustración europea alteró radicalmente las “formas de conocimiento” y los modos de crear conocimiento social. La idea es comprender cómo estas reglas profundamente arraigadas, aunque no escritas, han actuado durante mucho tiempo como guardianes de la producción de conocimiento y pueden tener la clave para explicar por qué ese esfuerzo, a lo largo de la historia de este planeta, no ha logrado reconocer las diversidades ontológicas y cosmológicas de sus muchos mundos. La desglobalización, sostenida aquí, puede enmendar la situación abriendo la producción de conocimiento a las voces que hasta ahora han sido silenciadas o marginadas.
El artículo se divide en cuatro partes. La primera explica los principios estructurantes de la producción de conocimiento establecidos por los filósofos de la Ilustración en lo que identifico como la primera fase de la globalización. Sostengo que este es un imperativo, porque estos filósofos europeos reescribieron los parámetros para determinar qué era el conocimiento y forjaron una nueva estratificación global que delimita quién sabe – incluso quién puede saber – tomando como fundamento la raza. En la segunda parte se explica cómo se mantuvo este marco a pesar del fin del imperialismo/colonialismo y los cambios de poder, ya que los nuevos estados independientes ejercieron poca autonomía para producir un corpus de conocimiento social que se ajustara a sus propias necesidades. En la siguiente sección se explica que, si bien la segunda fase de la globalización amplió el ámbito de investigación de las Relaciones Internacionales (RI) y sus teorías, lo hizo sin alterar los términos del compromiso entre el Norte global y el Sur global. El artículo sostiene que la desglobalización abre un campo de nuevas posibilidades para desafiar la hegemonía occidental en la producción de conocimiento (3). En él se analizan dos respuestas distintas, aunque no excluyentes: una respaldada por el poder material y discursivo de China – una potencia emergente que persigue una agenda nacionalista – y una segunda practicada por un grupo ecléctico de académicos comprometidos con la descolonización de los conocimientos de las RI, que desentierran su pasado, ampliando sus lugares de creación de conocimiento y aprendiendo de las diferentes formas de conocer a través de las diversas cosmologías que existen en el mundo.
La universalización del pensamiento europeo: la globalización 1.0
Los cimientos de las estructuras de conocimiento de las RI tienen su origen en el canon de la Ilustración europea de finales del siglo XVII y del XVIII. Los pensadores de la Ilustración compartían una firme convicción en que a través de las facultades intelectuales la humanidad podría lograr un conocimiento sistemático de la naturaleza y rehacer tanto mundo social como político, de forma que, en última instancia, la humanidad desarrollaría todo su potencial. La Ilustración, aunque transformó radicalmente a Europa y auguró la modernidad secular, tuvo un lado oscuro, ya que sus conocimientos sociales estaban arraigados en lógicas racializadas y de género cuyos legados aún no han sido analizado plenamente al interior de las principales corrientes de las relaciones internacionales. Esto hace que sea imperativo desentrañar los principios estructurantes de la creación de conocimiento que se produjeron y reprodujeron a lo largo de los siglos. La idea es entender este proceso historizando la cuestión de “quién” (en plural) ejerció la agencia en la producción de conocimiento: ¿quiénes fueron incluidos o excluidos, y cómo?
Un primer elemento de esta investigación se refiere al postulado de la linealidad como modo de conocimiento de las realidades sociales. Un análisis crítico de las genealogías del pensamiento liberal revela que el desarrollo de la idea de libertad implicó la segregación de la humanidad en una jerarquía divida en humanos, bárbaros y salvajes, incluso legitimando la coerción y la violencia contra los “incivilizados” y forjando nuevas normas de civilización para las sociedades, todo ello en nombre del bien supremo de la humanidad. La Ilustración concebía la historia de la raza humana como un progreso continuo hacia la perfección, creando un paradigma continuo, lineal y evolutivo que seguía un único movimiento que ponía a la civilización europea en la cúspide del mismo. Este desarrollo civilizatorio no era automático y los humanos debían esforzarse por alcanzar el siguiente nivel de desarrollo mediante el establecimiento de ciertos gobiernos. Sin embargo, esta misión sólo podía ser llevada a cabo por las naciones civilizadas, ya que se consideraba que las no civilizadas no podían avanzar en esta dirección – de hecho, eran consideras como incapaces de hacerlo –. Muchos filósofos liberales, como James Mill y John Stuart Mill, formularon las premisas epistemológicas y ontológicas del imperialismo, mientras que otros filósofos, como Hugo Grotius y David Hume, afirmaron que las naciones civilizadas debían intervenir en los asuntos de las naciones “atrasadas” para llevarles el progreso, la proverbial “carga del hombre blanco”. El liberalismo estaba así inextricablemente ligado al imperialismo (4).
Un segundo punto tiene que ver con el dualismo impuesto, el cual jerarquizaba el conocimiento social y producía toda una serie de oposiciones binarias. Así, la idea de civilización se definía como la negación de la barbarie: “Sean cuales sean las características de lo que llamamos vida salvaje, lo contrario de éstas, o más bien las cualidades que la sociedad se pone al desprenderse de ellas, constituyen la civilización” (5). Todas estas oposiciones binarias, que van desde el civilizado frente al salvaje, pasando por el hombre frente al indígena, el hombre frente a la mujer, el blanco frente al negro, hasta la razón frente a la creencia, se inscriben en una jerarquía implícita en la que se privilegia el “yo”, como primera categoría, y se devalúa y deslegitima totalmente al “otro”. De hecho, el “lenguaje civilizatorio” de la filosofía liberal considera que los incivilizados suponen una gran amenaza, por su diferencia y sus prácticas alternativas, frente al ser de toda la humanidad (6). En última instancia, este proceso requiere de la “homogeneización de cualquier diferencia desconocida” que se encuentre a niveles individuales, sociales y civilizacionales, subrayando así el supuesto fundamento de una “linealidad temporal homogénea” (7).
Un tercer elemento se refiere a las fuentes del conocimiento y a la afirmación de que el conocimiento, la autoridad y la legitimidad se derivan principalmente de las experiencias sensoriales y de la razón. Immanuel Kant dijo: “¡Atrévete a conocer! ¡Ten valor para usar vuestra propia razón!” (8). Sin embargo, Kant dividió a la humanidad en cuatro categorías raciales y utilizó la capacidad de pensamiento abstracto de las razas como un medio para distinguir quiénes eran aptos y quiénes no para el pensamiento filosófico. Argumentó que todos los humanos descienden de “genes transmitidos linealmente” comunes a Europa y que “la raza de los blancos contiene todos los talentos y facultades en sí misma”. Los hindúes sólo podían ser educados en las artes y no en las ciencias, ya que “nunca alcanzarán los conceptos abstractos” (9). Los negros “pueden ser educados” para convertirse en “siervos, es decir, pueden ser adiestrados”, pero los indígenas americanos son “ineducables” (10). Kant no era el único que sostenía que los blancos eran la raza superior y que sólo algunas razas eran capaces de producir conocimiento (11). Una nueva genealogía que remontara el linaje de la filosofía europea a la civilización grecorromana sólo podía llevarse a cabo mediante un doble movimiento de represión selectiva de su propio pasado, tratando la llegada del cristianismo – una época de fe en la que “la razón estaba perdida” – mediante la caracterización del cristianismo como “teología” (12) y borrando las raíces afroasiáticas de la cultura griega y sus antecedentes históricos, ignorando cualquier sugerencia de que “la filosofía comenzó en la India o en África” o llegó a Grecia desde allí (13). Dentro de la propia Europa, hacer filosofía seguía siendo un coto casi exclusivo dominado por hombres blancos ricos y las obras de las mujeres filósofas – salvo contadas excepciones – eran en su mayoría silenciadas (14).
Un cuarto punto se refiere a la práctica de forjar “universales” que se derivan y se aplican a los “particulares”. El principio de libertad para todos, por ejemplo, estaba mediado por el sujeto y las condiciones que actuaban sobre él, siendo poderosos filtros para identificar a las personas concretas que se consideraban realmente dignas de disfrutar de la libertad. Para J. S. Mill esto significaba “individuos maduros y racionales, mayores de edad”, que se habían criado “dentro de los límites de sociedades particulares” (15). Esta estipulación, leída en conjunción con la tesis de Mill sobre el desarrollo de la civilización, revela marcadas particularidades acerca del principio de libertad que no es ostensiblemente universal, excluyendo de él a la mayoría de los no europeos, a los que se consideraba carentes de “libertad mental e individualidad”, e incluso a aquellos europeos que se consideraban que tenían una “conducta inmadura”. Tales exclusiones fueron justificadas por otros filósofos europeos teniendo en cuenta la raza, el género y la clase; aunque la idea dominante del liberalismo tiene connotaciones universales, esta universalidad se consiguen sólo borrando las profundas omisiones que se produjeron al momento de su nacimiento. Este modo de producir “universales” a partir de contextos “particulares” limitados exclusivamente a los hombres europeos blancos es teóricamente significativo por su enorme poder discursivo, ejercido a lo largo de los siglos, como una forma de perpetuación de un tipo de colonialismo epistémico que marginó, negó y deslegitimó otras formas de conocimiento que se mantuvieron desacreditadas como pertenecientes a pasados bárbaros/retrasados y que debían ser desechados para lograr progresar en un futuro. La europeización de la mayoría de las demás culturas del mundo como legado duradero del imperialismo entre los siglos XV y principios del XX se entiende así como la primera fase original de la globalización.
El fin del imperialismo y del colonialismo: una falsa promesa
El fin del imperialismo fue un proceso de larga duración que comenzó con la revolución americana (1775-83), siguió con el colapso del imperio español en América Latina en la década de 1820 y terminó casi dos siglos después con la descolonización de Asia y África entre 1945 y 1970. Aunque las riendas del poder se transfirieron de los colonizadores a las élites locales y nacionales, esta transferencia no supuso necesariamente el fin de la colonización y la recuperación de la “legitimidad” de los conocimientos indígenas, además de sus formas particulares de producir conocimiento y modos de significación. Este punto debe ser enfatizado al analizar la construcción de las RI y la delimitación de su dominio de conocimiento, porque no hubo una ruptura del vínculo umbilical con el pensamiento de la Ilustración. Entender las estructuras de conocimiento de las RI y la permanencia de la cuestión de quién genera el conocimiento implica, por lo tanto, abordar tanto sus reivindicaciones epistémicas como los borrones epistémicos que se han hecho y las preguntas que no se hicieron.
El imperialismo, mediante la racialización de los “estándares de la civilización, había destrozado los mundos sociales y políticos de otras civilizaciones mucho más antiguas. Más insidiosa que la explotación material fue la “colonialidad del poder” (16). Ya que esta última bloqueó la capacidad de los colonizados de “producir cultura y significado que no esté mediado por los marcos simbólicos y modos de conocer y ser del colonizador” (17). En América Latina, la subyugación de las importantes culturas de los incas, los aztecas y otras naciones las terminó convirtiendo en “subculturas campesinas analfabetas condenadas a la oralidad” y privadas de sus propios modelos de expresión intelectual y formalizados, mientras que África fue convertida en una tierra “exótica”, lo que privó a los africanos de “legitimidad y reconocimiento en el orden cultural global” (18). El milenario corpus del pensamiento filosófico indio fue identificado erróneamente con la religión hindú y desestimado por ser espiritual y no racional.
La modernidad colonial también había alterado radicalmente las formas en que las personas gestionaban sus relaciones sociales y ejercían la autoridad política (19). En la India precolonial, por ejemplo, la naturaleza de la identidad de un individuo o grupo social era un fenómeno puramente social e inherentemente plural que figuraba en un plano horizontal en el que no había que priorizar ningún aspecto en particular (20). Una persona no se caracterizaba primero por ser hindú o musulmana o monje. Sin embargo, las formas de conocimiento imperiales británicas, especialmente las herramientas cognitivas de los mapas y los números, impregnaron su terreno social con el modo de pensamiento “o esto” o “o lo otro” (21). Una persona se convertía en hindú o en musulmán o en budista, obligando a los individuos y a las comunidades a ordenar los elementos de su identidad en una jerarquía. El plano horizontal, que daba expresión a la identidad plural, se perdió irremediablemente. En cuanto a los imaginarios políticos, las formas precoloniales de los órdenes políticos, sociales y culturales de muchas partes de Asia y África se solapaban; pero las modalidades peculiares de la modernidad colonial trataron de ordenarlas mediante jerarquías distintas, desbaratando, instrumentalizando y desacreditando sus mecanismos de mediación autóctonos (22). Muchos jefes locales de África, por ejemplo, fueron cooptados por el aparato colonial y, al dejar de responder ante el pueblo al que gobernaban, quedaron efectivamente sin poder.
Tales fueron las condiciones en las que los nuevos países independientes entraron en el sistema internacional. Por lo tanto, su capacidad para “sobrevivir” y navegar por el ámbito internacional como actores independientes dependía de la rapidez y eficacia con la que pudieran gestionar la disyuntiva entre sus realidades sociales duraderas y plurales y las estructuras políticas homogeneizadoras heredadas de sus amos coloniales. Y precisamente ese ámbito de investigación quedó fuera de los límites de las RI al momento de su nacimiento.
La empresa de construcción de conocimiento de las RI durante sus años de formación, hasta finales de la década de 1970, estuvo dominada por la búsqueda del paradigma realista de una teoría universal y parsimoniosa, junto con la visión estadounidense de un orden mundial liberal. Esto implicaba que Estados Unidos defendía la causa de los valores democráticos, el libre comercio y el “desarrollo” del “Tercer Mundo”, mientras que las teorías de las RI describían el Tratado de Westfalia de 1648 como el momento de nacimiento del sistema estatal moderno, defendían el Estado de Westfalia como el modelo a seguir para todos y caracterizaban al Estado como un fenómeno natural y permanente, es decir, una entidad no problemática con un marco interior/exterior que dirigía la mirada del Estado firmemente hacia su dominio exterior. Puesto que se suponía que la esfera doméstica estaba ordenada, el funcionamiento de su dominio interno ni siquiera entraba en el ámbito de las investigaciones de las RI. En otras palabras, los límites epistémicos y la base ontológica del conocimiento del dominio de las RI se determinaron esencialmente desde el punto de vista occidental (23), privilegiando a las grandes potencias y sus conflictos. Kenneth Waltz escribió: “Sería ridículo construir una teoría de la política internacional basada en Malasia y Costa Rica” (24). Esta afirmación era emblemática de las bases ontológicas “particulares” y las formulaciones supuestamente “universales”/epistemológicas del realismo en las RI, llenas de exclusiones manifiestas y enormes lagunas en el modo de construir el conocimiento (25).
La afirmación epistémica realista de que el Estado soberano es un fenómeno intemporal y universal requiere que se borren por completo el pasado imperial y racial de Europa, así como las historias de la expansión colonial en las que los genocidios fueron una característica común y rutinaria, al mismo tiempo que los pueblos indígenas fueron despojados de sus tierras mediante el dispositivo conceptual de terra nullis (26). Al mismo tiempo, las historias de los procesos de creación de Estados poscoloniales y la forma en que estos fueron mediados por la modernidad colonial se volvieron irrelevantes. De hecho, la propia adopción del modelo westfaliano bloqueó el camino para forjar un nuevo pacto social. El proyecto modernista había llevado a todos los Estados a buscar una identidad nacional para unir a su población socialmente diversa. La incapacidad fundamental de los dirigentes políticos para considerar las diferencias y la pluralidad como una fuente de fuerza y no de miedo y peligro dio lugar a numerosos conflictos internos, lo que a su vez llevó a estos Estados a ser descalificados como entidades cuasi-soberanas, cuasi-estatales que tenían una soberanía negativa, Estados débiles o fallidos (27).
La entronización del modelo westfaliano como epítome del Estado moderno reflejaba el dogma original del desarrollo civilizatorio, marcado por su trayectoria lineal y sus conceptos de progreso defendidos por la modernidad que establecía un paso del tribalismo al nacionalismo, lo que explica que los procesos de creación de Estados en la mayoría de las sociedades no occidentales sigan estudiándose en términos de carencia (elementos que faltan) o de distancia (de su objetivo), factores ambos que determinan el tiempo que necesitaron para llegar a un “destino determinado” (28). Esta perspectiva también ayuda a legitimar la “misión civilizadora” del colonialismo al traducir el tiempo histórico en distancia cultural, es decir, el tiempo que tardan las sociedades no occidentales en civilizarse y modernizarse como las occidentales (29). En América Latina, los defensores de la teoría de la dependencia hablaron de “una trampa estructural” que había sido históricamente creada por los Estados capitalistas más poderosos para negar la posibilidad de que los Estados de la región ejercieran efectivamente su soberanía y superaran el desarrollo dependiente (30). Y, sin embargo, los estrechos límites del ámbito de investigación de las relaciones internacionales excluían la posibilidad misma de que el funcionamiento del sistema internacional o sus prácticas de conocimiento fundamentales pudieran ser parcialmente responsables de la producción de Estados cuya condición de Estado se encontraba truncada (31).
El mismo fenómeno es evidente en el ámbito internacional. Aunque la descolonización no puso fin a la injerencia de las potencias imperiales, la práctica disciplinaria de adoptar el liberalismo y el capitalismo como el marco ideológico a través del cual los politólogos se adentraban en el campo de los estudios africanos, por ejemplo, distorsionaba bastante los alcances de su investigación (32). Al seleccionar estos conceptos como la clave para interpretar la situación poscolonial, los africanistas terminaron por señalar de forma selectiva los fracasos de las políticas de africanización y nacionalización económica aplicadas por los regímenes afromarxistas a finales de la década de 1970, al tiempo que calificaban a los que seguían el liberalismo económico como modelos de desarrollo exitosos (33). Estos últimos eran considerados como aliados fiables de Occidente hasta mediados de la década de 1990, siempre y cuando proporcionaran a los Estados occidentales los recursos naturales y estratégicos que tanto necesitaban, al tiempo que liberalizaban la economía de mercado en sus países, incluso al precio de “la desposesión de la mayoría de los africanos de sus tierras, su poder y sus derechos” (34).
El papel del mantenimiento de las prácticas disciplinarias de la época colonial también queda claro en el destino que siguió a la iniciativa de Bandung, el principio de Panchsheel y la filosofía de la no alineación. El primer ministro de la India, Jawaharlal Nehru, junto con Josip Broz Tito, de Yugoslavia, y Gamal Abdel Nasser, de Egipto, lanzaron el Movimiento de los No Alineados en 1961, creando una coalición de más de 100 Estados de Asia, África, Europa, el mundo árabe, América Latina y el Caribe. A pesar de ofrecer una visión del mundo alternativa sobre cómo debería funcionar el sistema estatal global en el marco de la Guerra Fría, la teoría de las relaciones internacionales nunca concedió a los no alineados un estatus o un reconocimiento (35). Los trabajos teóricos sobre los no alineados rara vez figuraban en las principales revistas de relaciones internacionales publicadas en Norteamérica y Europa durante las décadas de 1950 a 1970 (36).
Mientras tanto, los conceptos del realismo como lo eran el poder, la seguridad y el interés nacional se han convertido en omnipresentes en el vocabulario disciplinario de las RI, además de la primacía de su estado-centrismo que ha terminado por ser interiorizado y adoptado por todo el mundo. La hegemonía discursiva de Occidente no explica por sí sola este fenómeno. El liderazgo político del Sur global y sus comunidades académicas también han desempeñado un papel importante a la hora de preservar su preeminencia y mantener el statu quo. La “historia de amor con el Estado y el realismo” de América Latina, por ejemplo, estaba “arraigada en el papel histórico del Estado como principal expresión de las identidades e intereses nacionales” (37). En otros lugares, como Asia, Oriente Medio y África, las inseguridades nacidas por la conquista de la nueva independencia les llevaron a confiar en las categorías de realismo del Estado soberano al que se le daba vía libre para gestionar sus asuntos internos. A este mismo resultado contribuyó la visión de las investigaciones de las ciencias sociales como cómplices del proyecto de Estado. Dada la escasez de recursos económicos, el objetivo consistía en producir conocimientos aplicados a los problemas del mundo real para promover los objetivos del Estado. Una aversión institucionalizada hacia la teorización hizo que las RI se identificaran cada vez más con los estudios de política exterior y con la producción de investigaciones relevantes para la política de estos países y regiones. La teoría se consideraba un lujo que no podían permitirse, cediendo así el campo de la producción de conocimiento teórico autorizado y legítimo a los académicos estadounidenses y europeos. Sin embargo, al hacerlo, se cedía un terreno vital en el sentido de que la narrativa dominante seguía estando conformada por el sistema de valores y el modo de conocimiento occidentales, con sus normas civilizatorias profundamente arraigadas en visiones liberales.
Globalización 2.0: persistencia de las divisiones en el conocimiento
La globalización de finales del siglo XX provocó dos cambios en el conjunto de las estructuras de conocimiento de las RI. El primero se refiere a la aparición de una serie de teorías de las RI, como la teoría crítica, el constructivismo, el neomarxismo, el feminismo, el posestructuralismo, el poscolonialismo y la sociología histórica. Éstas compartían una premisa diferente de creación de conocimiento, es decir, que la realidad social está mediada por la historicidad tanto como por los valores, las normas y las prácticas sociales de los actores implicados. En conjunto, estas nuevas teorías introdujeron tres importantes correcciones de rumbo: la historia se convirtió en un campo de investigación reconocido en las RI; se concedió la debida importancia a las cuestiones ontológicas del ¿qué existe? tomando en cuenta las realidades locales; y el impulso científico de producir conocimiento objetivo dejó espacio para reconocer la intersubjetividad de todo el conocimiento social.
En segundo lugar, la globalización contribuyó a ampliar y profundizar la temática de las relaciones internacionales, lo que a su vez estuvo vinculado a su creciente importancia intelectual e infraestructural en todo el mundo. Para empezar, el desmantelamiento de las categorías binarias como el “adentro-afuera”, propias del realismo, abrió las puertas disciplinarias al estudio del carácter cambiante de la guerra y del creciente número de conflictos internos que ya no se limitaban al Sur global. La globalización creó un mundo profundamente interconectado en los ámbitos social, cultural, político y económico, lo que hizo comprender que los nuevos retos mundiales, como el cambio climático, el terrorismo, las migraciones, la proliferación de armas de destrucción masiva (e incluso de armas ligeras) y los complejos e intensos flujos de finanzas, mano de obra y tecnologías, ya no eran susceptibles de soluciones nacionales. Esto condujo a un aumento significativo de la participación de los especialistas en las RI del Sur global en la configuración de la teoría y la práctica de las RI a nivel mundial.
Sin embargo, la ampliación del ámbito de reflexión de las RI no supuso el fin del eurocentrismo profundamente arraigado en sus estructuras de conocimiento. Dado que el principal lugar de producción de la mayoría de las teorías de las RI, incluida las RI críticas, siguió siendo Estados Unidos y Europa, “tanto física como ideológicamente, los principios de la Ilustración europea seguían siendo el principal recurso dominante, circunscribiendo así su imaginación, su comprensión y sus conocimientos” (38). Por ejemplo, aunque el proyecto de los estudios críticos de seguridad “se basaba en revelar la producción de la exclusión como condición de opresión y en una política comprometida con la superación de las opresiones producidas por las exclusiones”, también “es cómplice de la producción y reproducción de exclusiones”, entre ellas las relacionadas con el género, la raza, la etnia y la orientación sexual (39).
Así pues, los imaginarios políticos de las teorías de las RI siguieron atados a Europa y Estados Unidos. Desde el trabajo de Tilly sobre “la creación de los Estados como una forma de crimen organizado” hasta la genealogía que hace Benno Teschke sobre la soberanía y el nacimiento del capitalismo en la Inglaterra del siglo XVII en lugar de Westfalia (40) o los estudiosos feministas que sitúan la adopción de prácticas patriarcales en las antiguas ciudades-estado griegas, la base teórica de las RI no ha dejado de estar anclada a estos países; e incluso la mirada “crítica” de los estudios sobre seguridad críticos, al igual que los estudios de seguridad tradicionales más estatalistas, sigue siendo teorizada desde fuera del Sur global (41). Europa sigue siendo el principal punto desde donde se intenta comprender al mundo, siendo la “emancipación” un regalo que comparte con el resto. El “agente de la emancipación” en esta literatura, como señalan Barkawi y Laffey, es casi siempre Occidente, ya sea en forma de instituciones internacionales dominadas por Occidente, una sociedad civil global dirigida por Occidente o las “políticas exteriores éticas practicadas por las principales potencias occidentales” (42). Mientras tanto, el Sur sigue siendo un espacio de anarquía, caos y violencia, que necesita la protección, la redención o la tutela que debe proporcionarle el Norte (43).
Las persistentes divisiones en el conocimiento se hacen evidentes a partir de los desiguales términos de compromiso entre el conocimiento producido por las RI en el Norte global con respecto al Sur global. La división del trabajo intelectual sigue llevando la impronta de la afirmación condenatoria de Immanuel Kant de hace dos siglos según la cual la mayoría de los no europeos eran incapaces de producir categorías de conocimiento abstractas. Todavía a principios del siglo XXI Estados Unidos y Europa siguen siendo los principales lugares de teorización de las RI, mientras que los académicos del hemisferio sur han aportado en su mayoría “datos” o, en el mejor de los casos, “conocimientos locales” (44). El papel de la “universidad imperial” en la vigilancia del conocimiento (45), junto a las clasificaciones globales de las universidades que someten la producción de conocimiento a la lógica neoliberal de la eficacia del mercado (46), el dominio duradero de las instituciones de élite de Estados Unidos y Europa en las principales revistas de este campo de estudio (47) y las prácticas de control del mundo editorial actúan son todos multiplicadores de este desconocimiento.
Al mismo tiempo, se emprendieron varios esfuerzos académicos con el objetivo de pluralizar o descentralizar las RI. Entre ellos se encuentran, aunque no exclusivamente, las “RI no occidentales”, las “RI globales”, las “RI postoccidentales” y las “RI poscoloniales” o las “RI decoloniales”. Más allá de la premisa compartida de que el eurocentrismo ha restringido y sesgado gravemente la teorización de las RI y que debe ser desafiado escuchando las voces de los no occidentales, estos esfuerzos difieren en sus supuestos específicos, en su comprensión del papel desempeñado por la episteme moderna y en su prescripción sobre cómo enmendar la situación. El término “RI no occidental” empezó a ganar partidarios cuando Amitav Acharya y Barry Buzan plantearon la pregunta retórica de ¿por qué no hay una teoría de las RI (TRI) no occidental? Llegaron a la conclusión de que para mejorar a las TRI en su conjunto se requiere que “las TRI occidentales” sean cuestionadas “no sólo desde dentro, sino también desde fuera de Occidente” (48). Aunque su llamamiento al desarrollo de una “TRI no occidental” suscitó una serie de respuestas (49), su caracterización de la TRI asiáticas y no occidentales a nivel “pre-teórico”, “subsistémico” o “TRI blandas” condujo a otro debate sobre lo que cuenta como TRI y quién decide que es (50 ). Se argumentó que “si la teoría de las RI occidentales sigue siendo la dueña de todo”, entonces “no es de extrañar que los enfoques no occidentales de las RI se consideren una simple copia de los discursos occidentales” (51) o como “variaciones locales” de las ideas occidentales que han adquirido un estatus “teórico en la academia” (52). El trabajo de Tickner y Waever sobre epistemologías geoculturales es muy enfático en explorar conceptos y teorías no centrales desde lugares no occidentales, intentar forjar unas RI posthegemónicas que sean sensibles a las implicaciones políticas y sociales de la producción de conocimiento en este campo del saber (53). Desde entonces, Acharya ha liderado un movimiento internacional para la construcción de unas “RI globales” que “trasciendan la división entre Occidente y el Resto” y se comprometan “con un universalismo pluralista, el enraizamiento en la historia mundial, la redefinición de las teorías y métodos de las RI existentes y la construcción de otras nuevas a partir de sociedades hasta ahora ignoradas como fuentes de conocimiento de las RI” (54). Las RI globales subrayan la necesidad de reconocer la diversidad de nuestro mundo, de buscar un terreno común y de resolver los conflictos, pero eluden la cuestión fundamental de los términos de dichas interacciones. La premisa fundamental de la visión de las RI globales es que las RI occidentales han descuidado y marginado sistemáticamente las voces y experiencias del mundo no occidental; pero ¿se puede incorporar al “Resto”? Es una pregunta que abordaré en la siguiente y última sección de este artículo.
La desglobalización: un reino de posibilidades
La desglobalización puede considerarse como una respuesta histórica a largo plazo a la pérdida de capacidad de acción de las personas para crear sus propios mundos vitales. Mientras que las interpretaciones más comunes de la desglobalización se refieren a que es producto de las exigencias y paradojas de la globalización tal y como se desarrolló en los siglos XX y XXI, yo sostengo que la desglobalización debe leerse como una réplica a las dos fases anteriores de la globalización que llevan ya seis siglos de diferencia y que bien podría presagiar un reino de nuevas posibilidades en lugar de la sombría perspectiva que sugieren los funestos presagios actuales. Es un intento de desmitificación y de-silenciamiento de la producción del conocimiento de las RI con tal de abordar cuestiones que llevan mucho tiempo sin plantearse o sin responderse: ¿Qué partes de las historias de todo el mundo se han dejado sistemáticamente de lado? ¿Cómo podemos construir historias conectadas que hoy aparecen desarticuladas y fragmentadas? ¿Cómo abordar las historias y experiencias de la vida de quiénes son sistemáticamente ignorados, silenciados, no escuchados y deslegitimados? ¿Y por qué? (55).
La desglobalización entendida en este sentido evita una formulación singular. Puede significar cosas diferentes para distintos pueblos, comunidades y naciones, sin que nadie tenga la potestad exclusiva de juzgar sus filosofías, prácticas y culturas. Para algunos, la desglobalización es el presagio de una época que por fin está dispuesta a reparar los errores históricos cometidos, por ejemplo, contra la gente de color en los Estados Unidos (56). Otros podrían utilizarla como una oportunidad para recuperar y reafirmar las subjetividades perdidas de las epistemes indígenas basadas en “un modelo de solidaridad horizontal” que incluye a todos los humanos, pero también a los no humanos, el mundo natural y cosmológico que reconoce los derechos de la naturaleza (57). Al mismo tiempo, potencias emergentes como China, Rusia y la India están empeñadas en la creación de un corpus nacional alternativo de conocimiento social derivado de sus propias historias, culturas y filosofías, buscando la aceptación global de este conocimiento.
Sin embargo, existe un entendimiento básico y compartido que cuestiona las prácticas de control disciplinario ejercidas por las comunidades académicas euroamericanas, como se ha explicado anteriormente. Aquí se analizan dos amplios conjuntos de respuestas: las dadas por los académicos que buscan “provincializar” las RI desarrollando escuelas nacionales de teoría comparativa de las RI, ejemplificadas por la escuela china de las RI (58); y la de aquellos que buscan ir más allá de los imaginarios nacionales y se basan en tradiciones más amplias y eclécticas del pensamiento no occidental/postcolonial/decolonial. Sin embargo, no son dicotómicos ni se excluyen mutuamente. De hecho, ambos aspiran a pluralizar las bases epistémicas de las RI, aunque sus estrategias y objetivos finales puedan diferir.
El retorno del nacionalismo chino: “es nuestro turno”.
Desde la década de 1990 China ha desplegado todo su poder material y discursivo para desafiar el eurocentrismo de las RI, encabezando el crecimiento de las teorías chinas de las RI como parte de una resolución más amplia de desarrollar un corpus de conocimiento social chino. Se han gastado enormes recursos para ayudar a catapultar a sus universidades de élite hasta convertirse en las instituciones más importantes del mundo (59). La recuperación de la ética, la historia y la filosofía de la civilización de este país es una de las características más obvias de la empresa de producción del conocimiento en China.
En concreto, la disciplina de las relaciones internacionales ha recorrido un largo camino desde la fundación de la República Popular China en 1949. El enfoque inicial sobre “la superioridad del socialismo” y “la oscuridad del capitalismo, especialmente de sus tendencias imperialistas” (60) fue abandonado en favor de marcos occidentales/americanos a finales de la década de 1980. Este fue un periodo en el que los estudiantes chinos aprendieron de los clásicos occidentales traducidos al chino y acudieron en masa a Estados Unidos para estudiar RI antes de regresar a su país para enseñar e investigar. Las primeras incursiones de los académicos chinos en la teorización de las RI estuvieron probablemente influidas por el concepto de Deng Xiaoping de “socialismo con características chinas”, a partir del cual se propusieron “construir una teoría de las RI con características chinas”, aunque con diferentes versiones (61). Mientras que algunos académicos basaron su trabajo en el marxismo, otros profundizaron en la historia y la filosofía chinas. Tampoco hubo consenso sobre la importancia o la eficacia de esta estrategia. Sin embargo, hasta bien entrada la primera década del siglo XXI se produjo un debate entre los que la consideraban una “estrategia de resistencia contra las influencias occidentales” y los que abogaban por “desarrollar teorías científicas” con connotaciones universales (62) .
Tres de estos esfuerzos son especialmente destacables: 1) el “realismo moral” de Yan Xuetong acepta los supuestos básicos del realismo, pero se basa en los antiguos pensadores chinos, especialmente en Guanzi, para argumentar que “tanto el poder material como el pensamiento moral son necesarios para mantener un orden internacional estable” (63). 2) La teoría de Tianxia de Zhao Tingyang o el “sistema de todo bajo el cielo” defiende un auténtico mundialismo. Tiene “un triple significado – como la tierra del mundo; como todos los pueblos del mundo; y como una institución mundial – combinado en un único término que indica un proyecto teórico que establece las conexiones necesarias e inseparables entre estos tres elementos” (64). Además, se apoya en la ontología de la coexistencia, que constituye el requisito previo para la autoexistencia. 3) La “teoría relacional” de Qin Yaqing sobre la política mundial se basa en la idea de la comunidad cultural confuciana. La ontología relacional privilegia las relaciones entre los actores, en lugar de los propios actores individuales, como unidad central de análisis para los estudios sociales y las RI. No niega la racionalidad, pero sostiene que la racionalidad se define en términos de relacionalidad. Así, las personas son racionales, pero relacionalmente racionales (65).
Los estudiosos chinos de las RI han recorrido un largo camino desde la comprensión de cómo las RI occidentales se constituyeron en RI hasta la creación de un espacio para sí mismos dentro de ellas y, a continuación, el planteamiento de una serie de problemas teóricos distintos y centrales para las teorías china de las RI. Sus implicaciones para la desglobalización de las RI, como he sostenido, dependerán de las estrategias epistemológicas y ontológicas que desplieguen los estudiosos chinos de las RI y de cómo sorteen las limitaciones de los propios contextos históricos, culturales y políticos de China. El primero de estos factores exige que se preste atención a las especificidades de sus “modos de conocimiento”; el segundo exige que se comprenda la estrecha relación entre la ideología del Estado, el poder del Estado y la producción de conocimiento en ciencias sociales en China.
Inspirándose en la cultura y la filosofía chinas, las RI chinas han introducido una serie de ideas epistémicas propias. Wang señala que las perspectivas chinas “tienden al monismo, prefiriendo un mundo armonioso en lugar de un dualismo o dicotomía arraigada en el cristianismo, una cultura propensa a dividir el mundo entre el bien y el mal” (66). La teoría relacional de Qin basa su esquema epistemológico en la dialéctica china zhongyong (67). Considera que la relación yin-yang es la metarrelación que representa todas las relaciones del universo. Utilizando la lógica de “ambos” para negar el modo de pensar “o lo uno o lo otro" de la episteme occidental y defendiendo la simultaneidad de la autoexistencia y la existencia del otro, al igual que la autoexistencia y la coexistencia. En conjunto, estas perspectivas han ampliado las bases epistémicas de las RI. Sin embargo, al mismo tiempo, su punto de referencia central sigue siendo las RI occidentales. Así, mientras que E. H. Carr, Hans Morgenthau y Kenneth Waltz siguen siendo los principales puntos de referencia del realismo moral de Yan Xuetong, la idea de mundialismo de Zhao Tingyang se remonta a Immanuel Kant, mientras que la teoría relacional de Qin no desecha el axioma de la racionalidad.
Cabe destacar que una gran parte de los académicos chinos han absorbido una parte muy importante de las tradiciones de conocimiento occidentales a través de su formación en universidades estadounidenses, sus propias prácticas pedagógicas y la literatura utilizada para enseñar a los estudiantes en las universidades chinas, además de su gran dependencia de los marcos teóricos occidentales. Además, no hay consenso sobre el objetivo último de los estudiosos chinos en este campo: ¿buscan realmente “provincializar Europa” o encontrar un lugar para sí mismos en la mesa “de la casa (colonial) de las RI”? (68).
Curiosamente, aunque los estudiosos chinos de las relaciones internacionales se basan en gran medida en su historia y cultura nacionales, evitan debatir abiertamente las complejidades más amplias de la producción de conocimiento social en el contexto político local. El conocimiento social en China siempre ha estado al servicio de los fines del Estado. Este enfoque es heredado del ideal confuciano del “pragmatismo estatal” (jingshi zhiyong), que se remonta a la escuela utilitaria del confucianismo durante la dinastía Song (960-1279) (69). Las ciencias sociales en China han sufrido una reestructuración radical en cada coyuntura histórica crítica, incluyendo el fin del dominio imperial, la revolución republicana y la revolución comunista, consolidando una larga tradición de estrecha relación entre el poder estatal y el pensamiento social y político del país.
La historia de las universidades que imparten ciencias sociales da testimonio de las estrategias disruptivas aplicadas por los regímenes gobernantes de China cuando se trata de ponerlas al servicio del Estado. Mientras la China imperial ejercía su control a través de instituciones nacionales como la Academia Hanlin, creada durante la dinastía Tang (712-56), la revolución republicana de 1911 la cerró y trasladó los centros de enseñanza a las ciudades del sur de China. Más tarde, el régimen de Mao Zedong creó un nuevo estilo de institución de ciencias sociales al servicio del Estado socialista (70). La ciencia política, considerada como “la pseudoideología de los burgueses”, fue abolida en 1952. Tras el Gran Salto Adelante se suprimió incluso el Ministerio de Educación Superior. Las ciencias sociales se estancaron durante la Revolución Cultural (71) y aunque se reactivaron en el marco de las reformas del régimen de Deng Xiaoping iniciadas en 1978, siguieron sometidas al control político. Esto se puso de manifiesto tras las protestas de la Plaza de Tiananmen de junio de 1989, cuando el Partido Comunista Chino (PCC) lanzó campañas para reescribir todos los programas de estudio de las asignaturas que se consideraba que contenían indicios de influencias “liberales burguesas”. Esto tambien fue corroborado por la filtración en el 2013 de una directiva interna del PCCh llamada “Documento Número Nueve”, que enumeraba principios como el valor universal de los derechos humanos, la democracia constitucional occidental, la sociedad civil y la prensa libre, entre otros, como prohibidos de ser enseñados en las universidades (72). A lo largo de los años, la injerencia del partido-Estado chino en las universidades se ha llevado a cabo a través de la estructura de gobierno dual de las universidades chinas, en la que el presidente comparte la autoridad con el secretario del PCCh, un mecanismo institucionalizado a través del cual este último puede coaccionar o reprimir cualquier forma de argumento crítico contra China (73). El silencio casi total de los académicos chinos sobre el aplastamiento de las protestas públicas en Hong Kong y el internamiento de millones de musulmanes uigures en Xinjiang también demuestra que todo el conocimiento social que se produce en China seguirá estando sujeto a las limitaciones impuestas por el Estado.
En otras palabras, el éxito de las RI chinas a la hora de ofrecer una praxis alternativa para teorizar las RI dependerá de que su agenda nacionalista no vaya en contra de los imperativos más amplios de pluralizar la base epistémica y ontológica de la disciplina de las RI.
Descolonializar la producción de conocimiento: la necesidad de muchos mundos
La descolonización de la producción de conocimiento en las RI no es una empresa singular que se origine en un lugar geográfico concreto, que pertenezca a una única escuela de pensamiento, comunidad, nacionalidad o región o que alguien sea pionero en ella. Lo que distingue al pensamiento descolonial de otras formas de pensamiento similares que pretenden descentralizar o pluralizar las RI, como ya se ha comentado, es su enfoque distinto de la creación de conocimiento en términos de relectura de las prácticas pasadas, identificando lo que debe cambiar y cómo.
Una premisa central es que el “no-occidente” nunca estuvo “ausente” de las RI y, por lo tanto, no puede ser simplemente “añadido”; además, que el no-occidente forma el sustrato que se encuentra perpetuamente en una posición de servidumbre, inferioridad y subordinación, y que su agencia para recuperar y dar forma a su propia subjetividad ha sido perennemente gobernada, tutelada, dirigida y, en última instancia, apropiada por el “Occidente” civilizado/moderno/desarrollado. El “no-occidente” y el “occidente” son co-constitutivos, y siempre lo han sido a lo largo de la historia en el sentido de que “nunca fueron espacios separados gobernados por sus propias dinámicas internas de desarrollo” (74). Tampoco estas dicotomías son simplemente relaciones de diferencia. Así, “el Este y el Oeste, el Sur y el Norte, el Oriente y el Occidente, aunque históricamente conectados, están marcados por relaciones de poder diferenciales” (75). Una lectura decolonial desenmascara el “eurocentrismo” de tales conocimientos y trata de interrogar las relaciones históricas violentas y explotadoras que han sido borradas durante mucho tiempo.
Otro punto de partida es que el pensamiento decolonial no hace afirmaciones de conocimiento que busquen la primacía o una unidad epistémica exclusiva. Impugna la propia idea de epistemes universales y evita crear otra para no forjar una línea temporal única alternativa u otra “autopista” que sea susceptible de ser patrullada y controlada por un nuevo conjunto de amos o guardianes (76). Sin embargo, reconoce debidamente la enorme contribución de los escritos poscoloniales/decoloniales, el marxismo, la sociología histórica, el feminismo, los estudios culturales, la tradición radical negra y los estudios raciales críticos, entre otros géneros literarios de este tipo, como parte de su bagaje. Como colectivo, estos géneros están abiertos a cultivar nuevos conocimientos a partir de las tradiciones vivas, las prácticas socioculturales, las historias y las filosofías de los pueblos de todo el mundo, en sus propios términos. Este colectivo no rechaza el conocimiento occidental, pero tampoco lo utiliza como punto de referencia central para crear o juzgar nuevos conocimientos.
La tarea principal del proyecto decolonial es entender cómo crear conocimiento en lugar de añadir o criticar el conocimiento aceptado. Se trata de descifrar las reglas del juego de la creación de conocimiento. ¿Cómo se crea el conocimiento? ¿Cómo se legitima? ¿Quién decide? Por lo tanto, se trata de entender cómo y por qué se privilegian ciertas formas de conocimiento mientras que otras son denigradas y desacreditadas. La descolonización del conocimiento exige que tanto sus productores como sus consumidores vean a través del principio estructurador de la jerarquización de los pueblos, los modos de conocer y las prácticas socioculturales y, de hecho, las divisiones globales del trabajo en la producción de conocimiento, que todavía sustentan los cambios en las nomenclaturas, los parámetros de las definiciones y las nuevas clasificaciones. Así, los “salvajes” del siglo XV o los “bárbaros” del siglo XVIII fueron caracterizados como pueblos “primordiales” o “menos modernos” en el siglo XX; las sociedades no-civilizadas fueron definidas como sociedades “tradicionales”, “subdesarrolladas” o “en desarrollo”; las “tribus cristianas perdidas” del Nuevo Mundo que primero fueron descritas como “indios rojos” o “indios americanos” se convirtieron más tarde en “indios nativos” y actualmente se conocen como “pueblos indígenas de las Américas”; el “no occidente” o el “tercer mundo” se denomina ahora como “Sur global”. Sin embargo, el estatus de Euroamérica, o el proverbial nombre de “Occidente” como máximo referente normativo, ha permanecido constante a lo largo de esta larga historia. Descolonizar el conocimiento muestra cómo estos dispositivos conceptuales y categorías de conocimiento se han utilizado para crear, explicar, validar y perpetuar la idea de “un mundo”, por lo que hay que salir de la caja para ver y comprometerse con el hecho de que existen “muchos mundos”.
Enmendar la situación implica deconstruir y reconstruir las historias globales para comprender cómo el funcionamiento de la “modernidad/colonialidad” (77) ha borrado sistemáticamente muchas historias y presentado otras de forma fragmentaria, limitándose así el ámbito de investigación de las RI. La descolonización de la historia es importante no sólo para poner en orden los registros empíricos, sino para su “reconstitución epistemológica”, que a su vez es necesaria para deshacer los efectos duraderos de la “matriz colonial de poder” que durante tanto tiempo ha sostenido y gobernado “el orden del conocimiento y gestionado el orden del ser” (78). En otras palabras, reconstruir los pasados es la clave para desbloquear los futuros. Esto hace que sea imperativo librar a la disciplina de las RI de su amnesia selectiva con respecto a las lógicas imperiales y racializadas que siguen impregnando sus marcos teóricos. Krishna denomina a esto “afasia racial” de las RI, un “olvido calculado” que obstruye “el discurso, el lenguaje y la palabra” (79).
Los académicos están desarrollando nuevas agendas de investigación que surgen de los “pueblos de color globales” identificados por W. E. B. Du Bois ya en 1925 (80). Esto implica cuestionar los orígenes imperiales y raciales de las RI (81), desenmascarar el “contrato racial” en la construcción fundacional de la disciplina y la anarquía y el impacto duradero de los preceptos de la supremacía blanca en las reivindicaciones de paz democráticas liberales e incluso en los debates constructivistas (82), rastreando las innumerables formas en que la raza, el género y la clase se entrecruzan en el funcionamiento de los conceptos, las categorías y las prácticas de las RI (83), legitimando un “mundo estructurado por la explotación imperial y las perniciosas jerarquías raciales” (84). Una interpretación alternativa del orden mundial “constitutivamente – y no derivativa – estructurada, reestructurada y disputada en función de la raza”, implica un cambio “geográfico, social, económico e intelectual” en los espacios de análisis de las RI (85).
El pensamiento decolonial no suscribe la idea de una temporalidad única ni acepta el principio omnipresente de la linealidad, ya sea con respecto al progreso humano o social, al desarrollo de las civilizaciones o a la evolución de la economía global hacia el capitalismo. Escobar explica por qué el proyecto de descolonialidad “no encaja en una historia lineal de paradigmas o epistemes”, porque hacerlo significaría integrarlo en la historia del pensamiento moderno y someterlo a las reglas predefinidas e impuestas por la epistemología moderna. Por ello, “sitúa su propia investigación en las fronteras de los sistemas de pensamiento y se acerca a la posibilidad de modos de pensamiento no eurocéntricos” (86). Reconoce que hay “varias historias, todas ellas simultáneas, interconectadas por los poderes imperiales y coloniales, por las diferencias imperiales y coloniales”, abriéndose así a voces y espacios que hasta ahora han permanecido “silenciados, reprimidos, demonizados y devaluados por la epistemología, la política y la economía moderna” (87). Por ejemplo, el pensador indio Kautilya, cuya teoría del mandala y el concepto de matsya-nyaya (la lógica del pez más grande que se come al pez más pequeño) prefiguró el Príncipe de Maquiavelo, el “estado de naturaleza” de Hobbes y la anarquía de Waltz (88), fue descartado o reducido a un simple “Maquiavelo indio”. Como se ha señalado anteriormente con referencia a filósofos chinos como Confucio y Guanzi, las RI necesitan recuperar estos cánones alternativos por parte de pensadores políticos globales (89).
De cara al futuro, un reto fundamental consiste en forjar prácticas alternativas a las prácticas disciplinarias de las RI que se derivan de sus supuestos fundacionales. Los académicos que trabajan en las RI pueden buscar una salida mediante el “cambio ontológico a un nivel fundacional”, suponiendo que las relaciones y las interconexiones preceden y son constitutivas de las cosas (90). Cuestionan el “compromiso ontológico de las RI con la separación como condición fundamental de la existencia”, que genera un mundo formado por entidades limitadas y fijas y que refuerza la lógica de lo uno o lo otro. No todo el trabajo decolonial es relacional, pero la relacionalidad y sus diferentes lógicas pueden funcionar como una herramienta decolonial para llevarnos “más allá de la reproducción de patrones y forjar nuevos caminos para crear conocimiento desde las RI” (91). La lógica de la inclusión y de un enfoque relacional entiende la similitud y la diferencia como opuestos complementarios unidos en un todo inseparable y reconoce las diversidades ontológicas y cosmológicas del globo con sus diversos sistemas de conocimiento.
En particular, muchas otras cosmologías comparten compromisos existenciales relacionales y la fluidez de los límites entre el “yo” y el “otro” se enfatiza en sus culturas y tradiciones vivas. La antigua tradición cosmológica india del dharma afirma que la vida humana, por su propia naturaleza, se compone de opuestos, ninguno de los cuales puede negarse o suprimirse; tampoco es irreconciliable, en principio, ninguna división en la relación con los demás (92). En las cosmologías africanas, el concepto dialógico de ubuntu sigue una “lógica emancipadora ascendente” que parte de la creación de un nuevo ser humano como principio y fin de los procesos políticos, sobre la base del principio umuntu umuntu ngabantu (una persona de una persona a causa de/por/mediante otras personas) (93). En el Islam la idea de wadat al-wujud (la unidad del ser) significa que todos los seres vivos y no vivos de este universo están mutuamente relacionados (94). El pensamiento confuciano supone que “siempre hay un método por el que la alteridad puede transformarse en una existencia armoniosa... [Así] pues, todas las cosas no armoniosas pueden pasar del Otro al Nosotros” (95). La relacionalidad también prevalece en otras cosmologías como el dao, el din, el advaita, el sikhi, el budismo y el ayllu y el runa, que se encuentra entre las tradiciones amazónicas (96).
Está claro que estas filosofías basadas en el concepto de existencia relacional tienen mucho en común y hablan en nombre de un segmento mucho más amplio de la humanidad que la racionalidad occidental que, sin embargo, ha prevalecido durante tanto tiempo como el único campo de juego valido. Un intento completo de producción del conocimiento desglobalizador se extiende mucho más allá de la disciplina académica de las RRII para impregnar todos los aspectos de nuestras vidas, nuestro pensamiento, nuestro hacer y nuestro ser (97). Si bien esto da lugar a muchas esperanzas de que tales procesos y sus resultados no sean dominados por unos pocos, también corre el riesgo de convertirse en un esfuerzo abierto que abarque muchas décadas, aunque no hay que olvidar que la hegemonía discursiva de “Occidente” también tardó siglos en desarrollarse y afianzarse en nuestras estructuras de conocimiento.
La desglobalización promete un nuevo reino de posibilidades; pero es demasiado pronto para predecir si la nueva ola de nacionalismo fragmentará aún más el conocimiento de las RI o si la disciplina logrará refundarse para reflejar los múltiples mundos que existen en el globo.
Notas:
1. Veáse Amitav Acharya y Barry Buzan, The making of global International Relations: origins and evolution of IR at its centenary (Cambridge: Cambridge University Press, 2019), p. 2.
2. John M. Hobson, The Euro-centric conception of world politics: western international theory, 1760–2010 (Cambridge: Cambridge University Press, 2012).
3. Es cierto que el término “occidental” es problemático por sus connotaciones esencialistas. En este artículo se utiliza principalmente para señalar los fundamentos epistemológicos comunes de las RI, que tienen sus orígenes históricos en la tradición angloamericana. Más tarde, Hoffman la caracterizó como “una ciencia social estadounidense”: véase Stanley Hoffman, ‘An American social science: International Relations’, Daedalus 106: 3, 1977, pp. 41–60. Waever recounts the growing differentiation between ‘continental and American traditions in international thought’: Ole Waever, ‘The sociology of a not so international discipline: American and European developments in International Relations’, en Peter J. Katzenstein, Robert O. Keohane y Stephen D. Krasner, eds, Exploration and contestation in the study of world politics (Cambridge, MA: MIT Press, 1999), pp. 47–87.
4. Jennifer Pitts, A turn to empire: the rise of imperial liberalism in Britain and France (Princeton: Princeton University Press, 2009).
5. J. S. Mill, ‘Civilization’, en Gertrude Himmelfarb, ed., Essays in politics and culture (Gloucester, MA: Peter Smith, 1973), p. 46.
6. Bhikhu Parekh, ‘Superior peoples: the narrowness of liberalism from Mill to Rawls’, Times Literary Supplement, 25 Feb. 1994, p. 11.
7. Uday Singh Mehta, Liberalism and empire: a study in nineteenth-century British liberal thought (Chicago: Chicago University Press, 1997), p. 108.
8. Immanuel Kant, ‘What is enlightenment?’, en Foundations of the metaphysics of morals and what is enlightenment?, trans. L. W. Beck (New York: Liberal Arts Press, 1959).
9. Kant, citado en Bryan W. van Norden, Taking back philosophy: a multicultural manifesto (New York: Columbia University Press, 2017), pp. 21–2.
10. Kant, cited in Norden, Taking back philosophy, pp. 21–2.
11. Veáse Emmanuel Chukwudi Eze, ed., Race and the Enlightenment: a reader (Malden, MA: Blackwell, 1997); Björn Freter, ‘White supremacy in eurowestern epistemologies: on the West's responsibility for its philosophical heritage’, Synthesis Philosophia 33: 1, 2019, pp. 237–49.
12. Daya Krishna, Civilizations: nostalgia and utopia (New Delhi: Sage, 2012), p. 94.
13. Veáse Martin Bernal, Black Athena: the Afroasiatic roots of classical civilization (New Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 1987); Peter K. J. Park, Africa, Asia and the history of philosophy: racism in the formation of the philosophical canon, 1780–1830 (Albany, NY: SUNY Press, 2013).
14. Excepciones incluyen a Mary Astell, A serious proposal to the ladies, parts I and II, ed. Patricia Springborg (Ontario: Broadview, 2002; first publ. 1694, 1697); y Mary Wollstonecraft, A vindication of the rights of woman with strictures on political and moral subjects (London: Joseph Johnson, 1792).
15. Eddy Souffrant, Formal transgression: John Stuart Mill's philosophy of international affairs (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 2000), p. 54 (emphasis added).
16. Anibal Quijano, ‘Coloniality and modernity/rationality’, en Walter D. Mignolo y Arturo Escobar, eds, Globalization and the decolonial option (Abingdon: Routledge, 2010), pp. 22–32.
17. Amy Niang, ‘The international’, en Arlene B. Tickner y Karen Smith, eds, International Relations from the global South: worlds of difference (Abingdon: Routledge, 2020), p. 107.
18. Quijano, ‘Coloniality’, p. 24.
19. La “modernidad colonial” se refiere a los intentos de las potencias imperiales de reestructurar el orden político, económico, moral y cognitivo de las colonias sobre fundamentándose en los valores de la Ilustración europea.
20. Sudipto Kaviraj, ‘Crisis of the nation-state in India’, en John Dunn, ed., Contemporary crisis of the nation-state? (Oxford: Blackwell, 1995), p. 11.
21. Bernard S. Cohen, Colonialism and its forms of knowledge: the British in India (Princeton: Princeton University Press, 1996), pp. 3–11.
22. Amy Niang, The post-colonial state in transition: stateness and modes of sovereignty (New York: Rowman & Littlefield, 2018).
23. Hay que reconocer que conceptos como teoría, epistemología y ontología son controvertidos en las RI. Su significado e importancia, tal y como se utilizan en este artículo, están imbuidos de un espíritu autorreflexivo inspirado en el pensamiento decolonial. Véase David L. Blaney y Arlene B. Tickner, ‘Worlding, ontological politics and the possibility of a decolonial IR’, Millennium: Journal of International Studies 45: 3, 2017, pp. 293–311.
24. Kenneth N. Waltz, Theory of international politics (Reading, MA: Addison-Wesley, 1979), p. 72.
25. Navnita Chadha Behera, ‘State and sovereignty’, in Tickner and Smith, eds, International Relations from the global South, pp. 143–50.
26. Entre las zonas maya-caribeña y tawantinsuyana (o inca), unos 65 millones de habitantes fueron exterminados en un periodo inferior a 50 años. Véase también Brenna Bhandar, Colonial lives of property: law, land, and racial regimes of ownership (Durham, NC: Duke University Press, 2018).
27. Robert H. Jackson, Quasi-states, sovereignty, International Relations and the Third World (Cambridge: Cambridge University Press, 1990, 1993); Ashraf Ghani y Clare Lockhart, Fixing failed states (New York: Oxford University Press, 2009).
28. Behera, ‘State and sovereignty’, p. 154.
29. Eric Wolf, Europe and the people without history (Berkeley: University of California Press, 2010).
30. F. López-Alves, State formation and democracy in Latin America, 1810–1890 (Durham, NC: Duke University Press, 2000).
31. Roxanne Doty, Imperial encounters: the politics of North–South relations (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1996); Mahmood Mamdani, Citizens and subjects: contemporary Africa and the legacy of late colonialism (Princeton: Princeton University Press, 1996).
32. Siba Grovogui, ‘The state of the African state’, en Arlene B. Tickner y David L. Blaney, eds, Thinking International Relations differently (Abingdon: Routledge, 2012), p. 132.
33. Grovogui, ‘The state of the African state’.
34. Grovogui, ‘The state of the African state’.
35. El término usado por Paul es “mecanismo de equilibrio”: véase T. V. Paul, Restraining Great Powers: soft balancing from the empires to the global era (New Haven, CT: Yale University Press, 2018).
36. La mayoría de estos trabajos se publicaron en revistas como Indian and Foreign Affairs, Socialist India, Seminar, Yugoslav Survey, Indonesian Quarterly, Economic and Political Weekly y Africa Report, ninguna de las cuales es considerada como una de las principales revistas de RI.
37. Arlene B. Tickner y Ole Waever, eds, International Relations scholarship around the world (New York: Routledge, 2009), p. 334.
38. Navnita Chadha Behera, Kristina Hinds y Arlene B. Tickner, ‘Making amends: towards an anti-racist critical security studies in IR’, Security Dialogue, forthcoming.
39. D. R. Mutimer, ‘My critique is bigger than yours: constituting exclusions in critical security securities’, Studies in Social Justice 3: 1, 2009, pp. 9–10.
40. Charles Tilly, ‘War making and state making as organized crime’, in Peter B. Evans, Dietrich Rueschemeyer and Theda Skocpol, eds, Bringing the state back in (Cambridge: Cambridge University Press, 1985), p. 170; Benno Teschke, ‘The origins and evolution of the European states-system’, en William Brown, Simon Bromley y Suma Athreye, eds, Ordering the international: history, change and transformation (London: Pluto, 2004), pp. 21–64.
41. Behera et al., ‘Making amends’.
42. Tarak Barkawi y Mark Laffey, ‘The postcolonial moment in security studies’, Review of International Studies 32: 2, 2006, p. 350.
43. Pinar Bilgin, ‘The “western-centrism” of security studies: “blind spot” or constitutive practice?’, Security Dialogue 41: 6, 2010, p. 616.
44. Tickner y Waever, International Relations scholarship, p. 335.
45. Piya Chatterjee and Sunaina Maira, eds, The imperial university: academic repression and scholarly dissent (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2014).
46. E. Hazelkorn, The impact of global rankings on higher education research and the production of knowledge, occasional paper no. 16 (New York: UNESCO Forum on Higher Education, Research and Knowledge, 2009); John Welsh, ‘Ranking academics: towards a critical politics of academic rankings’, Critical Policy Studies 13: 2, 2019, pp. 153–73.
47. Peter Marcus Kristensen, ‘Revisiting the “American social science”—mapping the geography of International Relations’, International Studies Perspectives 16: 3, 2015, pp. 246–69.
48. Amitav Acharya y Barry Buzan, ‘Why is there no non-western International Relations theory? An introduction’, International Relations of the Asia–Pacific 7: 3, 2007, p. 289.
49. See Andrey Makarychev and Viatcheslav Morozov, ‘Is “non-western theory” possible? The idea of multipolarity and the trap of epistemological relativism in Russian IR’, International Studies Review 15: 3, 2007, pp. 328–50; Ching Chen, ‘The absence of non-western IR theory in Asia reconsidered’, International Relations of the Asia–Pacific 11: 1, 2011, pp. 1–23; Kimberly Hutchings, ‘Dialogue between whom? The role of the West/non-West distinction in promoting global dialogue in IR’, Millennium: Journal of International Studies 39: 3, 2011, pp. 639–47.
50. Navnita Chadha Behera, ‘Re-imagining IR in India’, International Relations of the Asia–Pacific 7: 3, 2007, pp. 341–68.
51. Homi Bhabha, The location of culture (New York: Routledge, 1994); Pinar Bilgin, ‘Thinking past “western” IR?’, Third World Quarterly 29: 1, 2008, pp. 5–23.
52. Giorgio Shani, ‘Toward a post-western IR: the “Umma”, “Khalsa Panth”, and critical International Relations theory’, International Studies Review 10: 4, 2008, pp. 722–34.
53. Tickner y Waever, International Relations scholarship.
54. Amitav Acharya, ‘Global International Relations and regional worlds: a new agenda for international studies’, International Studies Quarterly 58: 4, 2014, p. 647.
55. Olivia Umurerwa Rutazibwa, ‘From the everyday to IR: in defence of the strategic use of the R-word’, Postcolonial Studies 19: 2, 2016, p. 191.
56. Gurminder K. Bhambra, Yolande Bouka, Randolph B. Persaud, Olivia U. Rutazibwa, Vineet Thakur, Duncan Bell, Karen Smith, Toni Haastrup y Seifudein Adem, ‘Why is mainstream International Relations blind to racism?’, Foreign Policy, 3 July 2020, https://foreignpolicy.com/2020/07/03/why-is-mainstream-international-relations-ir-blind-to-racism-colonialism/. (Salvo que se indique lo contrario en el punto de cita, todas las URL citadas en este artículo eran accesibles el 8 de julio de 2021).
57. ‘Ecuador first to grant nature constitutional rights’, ‘Short Takes’, Capitalism Nature Socialism 19: 4, 2008, pp. 131–3.
58. Otros intentos de este tipo son la Escuela Coreana (véase David Kang, East Asia before the West: five centuries of trade and tribute, Nueva York: Columbia University Press, 2010) y la Escuela de Kioto de Japón (véase Kosuke Shimizu, 'Materialising the "non-western": two stories of Japanese philosophers on culture and politics in the inter-war period', Cambridge Review of International Studies 28: 1, 2015, pp. 3-20). Véase también Andrei Tsygankov, ‘Self and other in International Relations theory: learning from Russian civilizational debates’, International Studies Review 10: 4, 2008, pp. 762–75; Marina Lebedeva, ‘International Relations studies in the USSR/Russia: is there a Russian national school of IR studies?’, Global Society 18: 3, 2004, pp. 263–78; Navnita Chadha Behera, ed., India engages the world (New Delhi: Oxford University Press, 2013); Deepshikha Shahi, Advaita as a global International Relations theory (New York: Routledge, 2018).
59. En el marco del Proyecto 211, el Ministerio de Educación distribuyó 2.200 millones de dólares en 1995; a este le siguió en 1999 el Proyecto 985, por el que se concedieron 4.000 millones de dólares a un grupo de élite de 39 universidades. El Proyecto Doble Universidad de Clase Mundial de 2017 pretendía establecer 42 universidades de clase mundial impulsadas por la investigación y 465 disciplinas de clase mundial para 2049. Chelsea Blackburn Cohen, ‘World-Class Universities and Institutional Autonomy in China’, International Higher Education, no. 99, 2019, p. 27. Veáse también Kathryn Mohrman, ‘Are Chinese universities globally competitive?’, China Quarterly, vol. 215, 2013, p. 4.
60. Yiwei Wang, ‘China: beyond copying and constructing’, in Tickner and Weaver, eds, International Relations scholarship, p. 104.
61. Xining Song, ‘Building International Relations theory with Chinese characteristics’, Journal of Contemporary China 10: 26, 2001, pp. 68–9.
62. Song, ‘Building International Relations theory’; Gerald Chan, ‘Toward an International Relations theory with Chinese characteristics’, Issues and Studies, vol. 6, 1998, pp. 22–3.
63. Yan Xuetong, Ancient Chinese thought, modern Chinese power, ed. Daniel A. Bell y Sun Zhe (Princeton: Princeton University Press, 2011).
64. Wang, ‘China: beyond copying’, p. 111; Zhao Tingyang, ‘Rethinking empire from a Chinese concept “All-under-Heaven”’, Social Identities: Journal for the Study of Race, Nation and Culture 12: 1, 2006, pp. 29–41.
65. Qin Yaqing, A relational theory of world politics (Cambridge: Cambridge University Press, 2018).
66. Wang, ‘China: beyond copying’, p. 111.
67. La dialéctica zhongyong constituye un componente clave de las visiones filosóficas del universo tanto confuciana como taoísta. Al igual que la dialéctica hegeliana, Yaqing explica que “ve las cosas en polos opuestos; pero a diferencia de la dialéctica hegeliana, asume que las relaciones entre los dos polos no son conflictivas y coevolucionan a través de un proceso interactivo armonizador hacia una nueva síntesis o una nueva forma de vida, que contiene elementos de ambos y no puede reducirse a ninguno”. Yaqing, A relational theory, p. 152.
68. Linsay Cunningham-Cross, ‘(Re)negotiating China's place in the house of IR: the search for a “Chinese School” of International Relations theory’, unpublished paper, 2012, https://www.escholar.manchester.ac.uk/api/datastream?publicationPid=uk-ac-man-scw:221785&datastreamId=FULL-TEXT.PDF.
69. Arthur F. Wright, ed., Confucianism and Chinese civilization (New York: Atheneum, 1964).
70. Ruth Hayhoe, ‘Chinese universities and the social sciences’, Minerva 331: 4, 1993, pp. 488–9.
71. Hayhoe, ‘Chinese universities’, p. 490.
72. Chris Buckley, ‘China takes aim at western ideas’, New York Times, 19 Aug. 2013. A finales de agosto de ese año, Zhang Xuezhong, profesor de la Facultad de Política y Derecho de China Oriental, fue inhabilitado para dar clases por su enérgica defensa del constitucionalismo.
73. Rui Yang, Lesley Vidovich y Jan Currie, ‘“Dancing in a cage”: changing autonomy in Chinese higher education’, Higher Education 54: 18, 2007, pp. 575–92. Véase también el informe de Scholars at Risk titulado Obstacles to excellence: academic freedom and China's quest for world-class universities (Chicago: Scholars at Risk, 24 Sept. 2019), https://www.scholarsatrisk.org/wp-content/uploads/2019/09/Scholars-at-Risk-Obstacles-to-Excellence_EN.pdf, p. 15.
74. Randolph B. Persaud y Alina Sajed, Race, gender and culture in International Relations: postcolonial perspectives (Abingdon: Routledge, 2018), p. 9.
75. Persaud and Sajed, Race, gender and culture, p. 9.
76. Walter D. Mignolo, ‘Coloniality of power and de-colonial thinking,’ en Mignolo y Escobar, eds, Globalization, p. 2.
77. Quijano, ‘Coloniality’.
78. Walter D. Mignolo, ‘Decoloniality and phenomenology: the geopolitics of knowing and epistemic/ontological colonial differences’, Journal of Speculative Philosophy 32: 3, 2018, p. 373.
79. Sankaran Krishna, ‘Race, amnesia and the education of International Relations’, Alternatives 26: 4, 2001, pp. 401–424.
80. La formulación original de esta idea puede encontrarse en W. E. B. Du Bois, ‘Worlds of colour’, Foreign Affairs 3: 3, 1925, pp. 423–44; para un desarrollo de la huellas del racismo en las RI veáse Alexander Anievas, Nivi Manchanda y Robbie Shilliam, eds, Race and racism in International Relations: confronting the global colour line (Abingdon: Routledge, 2015).
81. Robert Vitalis, White world order, black power politics: the birth of American International Relations (Ithaca, NY: Cornell University Press, 2015); Alexander E. Davis, Vineet Thakur y Peter Vale, Imperial discipline: race and the founding of International Relations (London: Pluto, 2020).
82. Errol A. Henderson, ‘Hidden in plain sight: racism in International Relations theory’, Cambridge Review of International Affairs 26: 1, March 2013, pp. 71–92.
83. Geeta Chowdhry y Sheila Nair, eds, Power, postcolonialism and International Relations: reading race, gender and class (New York: Routledge, 2004).
84. Bhambra et al., ‘Why is mainstream International Relations blind to racism?’.
85. Anievas et al., eds, Race and racism in International Relations.
86. Arturo Escobar, ‘Worlds and knowledges otherwise: the Latin American modernity/coloniality research program’, en Mignolo y Escobar, eds, Globalization, p. 34.
87. Walter D. Mignolo, ‘Coloniality of power and de-colonial thinking,’ en Mignolo y Escobar, eds, Globalization, p. 2.
88. Behera, ‘Re-imagining IR in India’.
89. Ver la serie de ‘Global Political Thinkers’ editada por H. Behr y F. Rösch, la cual fue publicada por Palgrave Macmillan.
90. Tamara A. Trownsell, Arlene B. Tickner, Amaya Querejazu, Jarrrad Reddekop, Giorgio Shani, Kosuke Shimizu, Navnita Chadha Behera y Anahita Arian, ‘Differing about difference: relational IR from around the world’, International Studies Perspectives 22: 1, 2021, pp. 25–64.
91. Trownsell et al., ‘Differing about difference’ (emphasis in original), p. 3.
92. Chaturvedi Badrinath, Dharma, India and the world order (Edinburgh: St Andrew's Press, 1993), p. 91.
93. Mvuselelo Ngcora, ‘Ubuntu: toward an emancipatory cosmopolitanism’, International Political Sociology 9: 3, 2015, p. 260.
94. Deepshikha Shahi, ed., Sufism: a theoretical intervention in global International Relations (New York: Routledge, 2020).
95. Wang, ‘China: beyond copying’, p. 111.
96. Trownsell et al., ‘Differing about difference’.
97. Louis Yako, ‘Deglobalizing knowledge production: a practical guide’, Counterpunch, 9 April 2021, https://www.counterpunch.org/2021/04/09/decolonizing-knowledge-production-a-practical-guide/?fbclid=IwAR0r1xa1_BnNMC9jbc-t_etfi58m5L4mZFcGYHgrrTrhIUfSIh373zTz3UY.
0 notes